Nel cuore della città, tra i flussi turistici e le vetrine del lusso, un gruppo di lavoratori interrompe per un giorno la consuetudine del “decoro fiorentino”

Nel cuore della città, tra i flussi turistici e le vetrine del lusso, un gruppo di lavoratori interrompe per un giorno la consuetudine del “decoro fiorentino”. Provengono dalla stireria “L’Alba” di Montemurlo, una delle tante aziende dell’indotto tessile toscano. Da mesi non percepiscono lo stipendio; alcuni hanno lavorato turni di dodici ore senza contratto regolare, altri attendono arretrati che sembrano ormai scomparsi nei passaggi della filiera. Insieme ai delegati del SUDD Cobas decidono di entrare nella boutique di Patrizia Pepe, il marchio per cui la loro impresa lavora da anni, e di occuparne simbolicamente lo spazio.

L’azione dura ore. Gli slogan risuonano nel negozio: “Pagate i lavoratori!”, “Basta sfruttamento negli appalti!”. I clienti si fermano, i turisti osservano, il personale chiama le forze dell’ordine. Per ore il centro di Firenze smette di obbedire al proprio ritmo. Dentro la boutique di Patrizia Pepe la superficie ideologica della moda italiana si incrina, e affiora la materia del conflitto. È la potenza di un atto di classe che sposta la contraddizione dal margine al cuore del capitale, dalla fabbrica alla sua rappresentazione, riportando il lavoro vivo dentro il tempio del consumo.

La scena mostra, in forma concreta, la contraddizione fondamentale del capitale: la separazione tra chi produce e chi accumula. Patrizia Pepe non possiede fabbriche né dirige officine: esercita la funzione del capitale puro, coordinando una rete di appalti e subappalti in cui il lavoro vivo è ridotto a ingranaggio invisibile. L’impresa centralizza, comanda e separa, appropriandosi del valore prodotto dalla classe che infine rigetta.

Il modello è chiaro: la parte visibile del valore, quella che parla di creatività, stile e identità, appartiene al marchio; la parte invisibile, fatta di ore e di corpi, resta confinata nei laboratori di provincia. Ogni passaggio della filiera, dal committente alla cooperativa, dal laboratorio alla stireria, scarica verso il basso il rischio e la precarietà. È un capitalismo senza volto, che vive della propria distanza.

Quando i lavoratori di Montemurlo scelgono di sedersi tra gli scaffali della boutique, non chiedono soltanto lo stipendio: chiedono di essere riconosciuti come parte della catena del valore. È un gesto che ricompone ciò che il capitale ha separato. Per un istante la vetrina non è più lo spazio del consumo, ma il luogo in cui si svela la produzione.

La risposta della direzione è la stessa che caratterizza l’intero comparto del lusso: formalmente solidale, ma sostanzialmente assente. L’azienda dichiara di non avere “rapporti diretti” con la stireria e si rifugia nella legalità formale del contratto. È la lingua tipica del capitale maturo: l’autogiustificazione giuridica che maschera il comando economico. La neutralità apparente non è assenza di potere, ma la sua forma più efficace: quella che consente al dominio di presentarsi come semplice procedura.

Nel frattempo, i lavoratori restano senza salario e la città riprende la sua normalità. Ma la contraddizione è rimasta impressa nel cuore del centro storico: Firenze, capitale dell’estetica, ha mostrato per un giorno il suo retrobottega. Dietro la grazia delle vetrine, la “logica della fabbrica” non è mai svanita: si è riconfigurata nella forma flessibile del comando contemporaneo, spezzettata e invisibile, ma ancora interamente sottomessa alla legge del profitto e del plusvalore.

Chi percorre la piana che da Firenze arriva a Prato incontra una sequenza di capannoni anonimi, strade industriali, insegne consunte. È il cuore del distretto tessile toscano, una delle aree produttive più antiche e complesse d’Italia. Qui, negli anni, la grande officina produttiva è scomparsa, ma la produzione non è morta: si è frantumata, trasformandosi in rete, microimpresa, cooperativa, appalto. Il modello, nato come forma di flessibilità, è diventato un meccanismo di isolamento. Ogni laboratorio vive in concorrenza con l’altro, ogni lavoratore dipende da un padrone intermedio, e ogni padrone intermedio da un marchio che non vede mai.

La forza del distretto è la sua organizzazione diffusa, ma la sua debolezza è strutturale e inscritta nella logica stessa del capitale. Per le aziende di moda – Patrizia Pepe, ma anche decine di etichette minori – questa configurazione rappresenta la forma ideale della valorizzazione: consente di produrre in Italia, mantenendo il prestigio simbolico del “Made in Italy”, ma con salari compressi e responsabilità polverizzate lungo la catena. Il subappalto, in questo modo, diventa lo strumento politico del capitale: permette di estrarre plusvalore nella prossimità territoriale e, al tempo stesso, di dissolvere ogni vincolo giuridico e morale verso chi lavora.

In termini marxisti, la si potrebbe definire una nuova forma di estrazione del plusvalore: non più soltanto nello sfruttamento diretto del tempo di lavoro, ma nella frammentazione stessa del lavoro. L’atomizzazione produttiva è la nuova forma del dominio capitalistico: frantuma la classe operaia in individui giuridicamente isolati, ne disintegra la coscienza comune e la rende incapace di riconoscersi come soggetto collettivo. Ciò che un tempo era forza contrattuale diventa oggi frammento, e il lavoro, privato della propria unità, viene restituito al capitale come massa docile e intercambiabile.

Le cooperative che popolano il distretto non hanno più nulla di cooperativo. Nella retorica imprenditoriale rappresentano “flessibilità”, “dinamismo”, “artigianalità”. Nella realtà sono la cerniera attraverso cui la pressione dei grandi gruppi si traduce in precarietà quotidiana. Funzionano come ammortizzatori della violenza economica: assorbono i rischi, comprimono i salari, garantiscono la consegna. Se una chiude, un’altra apre nello stesso capannone, con gli stessi operai e un nome nuovo. È la rotazione continua del capitale minore intorno al capitale maggiore.

Il distretto di Prato e la sua cintura – Montemurlo, Calenzano, Campi Bisenzio, Empoli – è un mosaico di competenze: taglio, stiratura, finitura, tintura, logistica. Ogni segmento ha un padrone e un committente; il committente ha un marchio, e il marchio agisce come centro invisibile di comando, tenendo insieme la catena senza mai esporsi. La filiera è il dominio diffuso del capitale: il potere non si trasferisce, si estende dal luogo della produzione al linguaggio del contratto, assorbendo la subordinazione dentro la procedura e convertendo lo sfruttamento in regola.

Nella retorica del mercato si parla di “eccellenza”, “artigianato evoluto”, “filiera corta”. Ma dietro queste formule si cela una vera e propria economia della compressione, dove la competitività è il nome elegante della sottomissione. Gli operai migranti – soprattutto cinesi, pakistani, bengalesi ma anche italiani – sono la nuova forza motrice del distretto: una classe operaia transnazionale invisibile, impiegata in condizioni che riproducono, con altri mezzi, la disciplina materiale della manifattura ottocentesca. Orari infiniti, straordinari non retribuiti, assenza di rappresentanza reale: la modernità del distretto si fonda sulla restaurazione di rapporti di produzione arcaici. L’unica differenza è che oggi il comando non si incarna più nel padrone, ma nella struttura stessa del capitale: nei tempi della consegna, nei margini di profitto, nella catena impersonale che trasforma la necessità economica in destino sociale.

L’intervento del SUDD Cobas in Toscana nasce proprio da qui: dal vuoto lasciato dai sindacati storici, troppo compromessi con l’idea che la competitività del distretto sia un bene comune. In realtà la competitività è solo un altro nome per la diseguaglianza. I sindacati di base riportano il conflitto dove il capitale lo aveva rimosso: nei magazzini, nelle stirerie, nelle cooperative. Le loro lotte hanno restituito visibilità a un proletariato che la retorica della moda aveva cancellato.

Dal punto di vista politico, il distretto toscano è una lezione su come il capitalismo moderno riesca a conciliare la forma dell’eccellenza con la sostanza dello sfruttamento. L’economia regionale è celebrata come modello, ma il suo equilibrio si regge su una precarietà strutturale. È una Toscana doppia: quella che esporta borse, scarpe e abiti, e quella che li produce in silenzio. La prima parla di identità, la seconda di sopravvivenza. E in mezzo, invisibile ma costante, scorre la logica del capitale con il potere di accumulare senza necessariamente apparire.

Quello che accade a Firenze, a Montemurlo o a Prato non è soltanto un episodio di cronaca industriale: è il ritratto di un modello economico che ha ridefinito la geografia del potere. Il capitalismo toscano – e in particolare quello della moda – non sfrutta solo il lavoro; sfrutta l’immagine del lavoro. Vende la narrazione dell’artigianato mentre ne svuota il contenuto. La parola “bellezza”, che un tempo indicava la perizia e la dignità del fare, è diventata il marchio con cui il capitale giustifica la disuguaglianza.

Patrizia Pepe, come altri marchi del settore, rappresenta l’evoluzione ultima di questa ideologia. Il suo profitto non nasce dalla produzione, ma dall’astrazione: dall’appropriazione di simboli, linguaggi, aspirazioni. È il capitalismo della griffe: quello che accumula valore attraverso la promessa di stile mentre delega la realtà del lavoro a chi resta invisibile. Ogni abito venduto in boutique contiene ore di fatica che non trovano rappresentazione. E ogni volta che la maison dichiara di “non avere rapporti diretti” con i propri fornitori rinnova la stessa formula di dominio: il diritto di beneficiare senza dover rendere conto.

Oggi la separazione tra produzione e rappresentazione ha raggiunto il suo apice storico. Il marchio non detiene più i mezzi di produzione, ma i mezzi dell’immaginario, e in questo risiede la nuova forma del comando. In un’economia fondata sull’immagine, il potere non si esercita più attraverso la macchina ma attraverso la coscienza: non domina la materia, domina la percezione. Il capitale, giunto alla sua fase più matura, non ha più bisogno di produrre oggetti per esistere: gli basta produrre consenso.

La Toscana è il laboratorio perfetto di questa transizione. Lì dove la manifattura aveva un volto – artigiani, laboratori, cooperative solidali – oggi c’è una catena di lavoro disarticolata che riproduce in scala ridotta le stesse dinamiche globali. Le imprese cercano di restare competitive non migliorando le condizioni, ma comprimendo i costi. La flessibilità, parola d’ordine della modernità, è diventata il sinonimo della sottomissione.

Le proteste del SUDD Cobas e dei lavoratori della filiera tessile non sono semplici rivendicazioni salariali: sono la riaffermazione politica del lavoro come soggetto storico. Esse mirano a smascherare l’anonimato del comando capitalistico, a riportare il potere economico alla sua responsabilità materiale. Chi dirige la filiera deve essere riconosciuto come datore di comando reale, non come entità astratta o morale. La posta in gioco è più alta del salario: è la ricomposizione della classe, la restituzione di unità a ciò che il capitale ha frantumato per governare.

Ma il significato più profondo della vertenza fiorentina è un altro: mostra che la classe non è scomparsa, è stata solo spostata di luogo. Non è più nei perimetri della fabbrica, ma nelle reti di produzione diffusa, nei magazzini, nelle stirerie, nei call center, nei laboratori. È una classe frammentata, ma non disgregata. E ogni volta che riesce a manifestarsi, come nella boutique di Firenze, riapre la possibilità di un discorso collettivo.

Il capitalismo – e la filiera della moda ne è solo una delle sue forme più visibili – si fonda sull’equivalenza universale della merce: tutto può essere sostituito, scambiato, dissolto nel valore di scambio, dalle persone alle parole, fino alla verità stessa. La lotta operaia, al contrario, riafferma l’insostituibilità del lavoro come forza viva della storia, il diritto alla vita materiale e il riconoscimento del soggetto che produce. In questa ostinazione si conserva la sostanza rivoluzionaria del marxismo: il rifiuto di accettare come “naturale” ciò che è effetto di rapporti di produzione, e come “inevitabile” ciò che è frutto del dominio.

Oggi la Toscana mostra con nitidezza la propria contraddizione: le vetrine del lusso e i capannoni svuotati, le boutique illuminate e le stirerie serrate, la retorica del merito e la realtà della privazione. È la coesistenza forzata di due mondi che non comunicano ma che si sorreggono reciprocamente come le due facce dello stesso processo di valorizzazione capitalistica. Il compito della politica – intesa non come amministrazione dell’esistente ma come organizzazione del conflitto – non è restituire centralità al lavoro salariato, bensì superarne la forma, rompere il nesso tra vita e produzione, liberare il tempo umano dal comando dell’economia.

E tuttavia, finché questo superamento non troverà compimento storico, il dovere immediato resta quello di difendere il lavoro vivo dalle forme quotidiane della sopraffazione. Non per un culto economicistico del salario, ma per la salvaguardia della dignità materiale e collettiva che ogni sfruttamento tenta di negare. Solo in questa tensione – tra il rifiuto del lavoro come dominio e la tutela del lavoro come diritto – si custodisce la possibilità reale dell’emancipazione.

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