A Gaza la cosiddetta “pace” non segna la fine della guerra, ma la sua metamorfosi strutturale. È la fase in cui la distruzione si trasforma in controllo e la violenza si deposita in istituzione. Dopo il 7 ottobre – data che ha riattivato la storia sotto le macerie dell’ordine coloniale – Israele ha ridefinito il proprio dominio non più attraverso il fuoco, ma mediante la gestione della fame. La guerra è stata sostituita dall’organizzazione della sopravvivenza, e la politica è divenuta direzione dei flussi vitali ma iI capitale coloniale, esaurita la forza produttiva della distruzione, non ha smesso di proseguire attraverso la logistica della scarsità.
L’apparato israeliano non ha semplicemente devastato la Striscia: ne ha riscritto la morfologia sociale, disarticolando le reti comunitarie, cancellando le leadership autonome, favorendo la nascita di poteri intermedi e di economie parallele. Sotto la superficie della “pace” si consuma oggi una battaglia invisibile: quella per il controllo della vita materiale. Non è un accordo, ma una guerra riorganizzata: un’economia dell’assedio che trasforma la popolazione in forza-lavoro sospesa, in capitale umano disciplinato attraverso la fame.
Hamas – al di là di ogni giudizio – si trova al centro di questa contraddizione storica. La sua origine, negli anni Ottanta, porta il marchio del paradosso tipico delle formazioni nate dentro il dominio coloniale: fu Israele a tollerarla e perfino a sostenerla, nella convinzione di poter indebolire la sinistra marxista e nasseriana del movimento palestinese, in particolare il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina e le sue cellule operaie. Il calcolo era classico: sostituire alla coscienza di classe un’identità religiosa, dividere il fronte nazionale, rendere prevedibile la resistenza. Ma come spesso accade nella storia del capitale, il dispositivo concepito per perpetuare il dominio si è rovesciato nel suo contrario.
L’organizzazione nata per dividere la Palestina è divenuta, col tempo, la sua forma politica più radicata. L’istituzione creata per disperdere la forza sociale è divenuta, per necessità, il suo principio di coesione. L’esperimento coloniale è sfuggito al suo architetto. Dal 7 ottobre 2023, Hamas ha assunto una funzione che nessun’altra forza avrebbe potuto incarnare: quella di riportare la resistenza dentro il linguaggio della storia, restituendo alla Palestina il potere di iniziativa. Non si tratta di esaltare, ma di constatare: Hamas ha interrotto il processo di neutralizzazione imposto dal capitale coloniale, e dopo decenni d’assedio la Striscia è tornata soggetto, non oggetto, della politica.
Assunto ciò, è inevitabile che un soggetto storico che attraversa una sconfitta si trova a dover affrontare la contraddizione di costruire un ordine nuovo dentro le rovine di quello del nemico. Una forza forgiata nella lotta non governa, organizza, tiene insieme ciò che il dominio disgrega e produce nuove forme di vita collettiva. La resistenza che si fa struttura non rinnega sé stessa: diventa strumento di continuità, trasforma la necessità in progetto e la sopravvivenza in gesto politico. In questa fase, il comando non è dominio, ma coordinamento, responsabilità e custodia del comune, dove tutto converge verso un solo obiettivo: impedire che la storia di un popolo venga riscritta dai suoi oppressori.
Con la “pace”, questa contraddizione è emersa in tutta la sua evidenza. Le rovine non sono soltanto pietre, ma rapporti sociali infranti, economie disgregate, reti di scambio ricostruite intorno al bisogno. In ogni quartiere sono riemersi mediatori, clan, signorie locali che, durante i mesi di fame, hanno trasformato la sopravvivenza in merce, aprendo canali diretti con Israele. Hanno contrattato, trafficato, negoziato: la miseria è diventata moneta. In un’economia dove la produzione è paralizzata e l’esportazione proibita, la riproduzione sociale si trasforma in mercato nero e chi controlla il passaggio diventa borghesia. È la legge dell’accumulazione primitiva in condizioni d’assedio: il profitto non nasce dal lavoro, ma dal monopolio dei varchi.
Su questa base si è formata a Gaza una borghesia di confine: i Doghmush, i Tarabin, i Sawarka, gli al-Majayda, gli Hellis, i Jundeya, gli Shejaia e altre famiglie che da decenni si contendono la geografia della rendita. I Doghmush, signori dei tunnel e del contrabbando, hanno oscillato fra alleanze e scontri con Hamas; il loro braccio armato, l’”Army of Islam”, ha intrecciato jihadismo e criminalità, facendo della violenza un’economia autonoma. I Tarabin e le “Popular Forces” di Yasser Abu Shabab a Rafah hanno gestito valichi e convogli, trasformando gli aiuti in capitale. A Khan Yunis, il clan al-Majayda di Hossam al-Astal ha costruito una rete economica parallela fondata sul carburante e sulla rivendita dei beni di consumo. Tutti questi gruppi hanno prosperato nell’assedio non opponendovisi, ma interiorizzandolo come sistema economico. Alcuni hanno collaborato apertamente con l’occupante; altri si sono limitati a fare affari. In ogni caso, la loro funzione è stata quella di integrare l’economia coloniale dentro la società palestinese, legando il destino dei poveri alla propria logica parassitaria.
Quando la “pace” è giunta, Hamas si è trovata davanti a un bivio: lasciare che questi poteri locali consolidassero la propria autonomia, frammentando la resistenza, oppure riaffermare il monopolio politico della distribuzione. La scelta è stata inevitabile. Da settimane, le sue forze di sicurezza conducono quella che i media definiscono “resa dei conti”, ma che corrisponde a una ristrutturazione dei rapporti di forza interni alla formazione sociale palestinese. Nei quartieri di Gaza City, Rafah e Khan Yunis sono stati arrestati o eliminati membri dei clan accusati di collaborazionismo. Fonti locali parlano di decine di esecuzioni e di scontri con i Doghmush, mentre le “Popular Forces” sono state sciolte e i loro capi rimossi. Questi episodi, più che una vendetta, sono la prosecuzione della guerra con altri mezzi: il conflitto fra l’economia collettiva della resistenza e quella privata della rendita.
Questa dinamica va compresa nella logica storica del materialismo. Hamas tenta di scongiurare che l’assedio si fissi come “ordine feudale”, dove la fame diventa proprietà e la sopravvivenza privilegio. I clan rappresentano la forma arcaica del capitale predatorio: accumulano senza produrre, espropriano attraverso la fame. Hamas, pur nei suoi limiti, agisce come forza di centripeta, cercando di ricondurre la distribuzione dei beni entro un principio collettivo. È un processo sicuramente violento e contraddittorio, ma necessario. Nelle condizioni del dominio coloniale, la sopravvivenza diventa il luogo stesso della lotta di classe. Chi controlla la distribuzione controlla il potere; chi se ne appropria privatamente diventa classe dominante. Difendere la collettività significa riconquistare quel potere materiale, sottrarre la miseria al mercato e restituirla alla storia: anche nelle guerre di liberazione del secolo scorso, la transizione dalla guerra militare alla guerra sociale ha comportato la rimozione forzata di interi strati collaborazionisti o speculativi. In Francia, in Italia, in Jugoslavia, nel dopoguerra, la resistenza dovette eliminare coloro che avevano sostenuto il nemico o accumulato ricchezze sulla fame. In Vietnam, i comitati popolari liquidarono i capi villaggio legati al potere coloniale francese; in Algeria, il FLN smantellò reti tribali e intermediarie che avevano gestito la sopravvivenza come privilegio.
Persino in processi più istituzionalizzati – come la Russia rivoluzionaria dopo il 1917 o Cuba negli anni Sessanta – la costruzione del potere popolare implicò la neutralizzazione delle classi parassitarie che traevano profitto dalla scarsità. In ogni caso, non si trattava di una vendetta, ma di una necessità storica: la ridefinizione dei rapporti sociali in condizioni di rovina.
Hamas si trova oggi dentro lo stesso paradigma: la fase in cui la resistenza è costretta a rimuovere gli elementi che trasformano la fame in privilegio. Gli arresti, gli scontri e le esecuzioni che attraversano Gaza non rappresentano un’anomalia morale, ma la prosecuzione della guerra su un piano sociale e come in tutte le transizioni (rivoluzionarie o meno), la neutralizzazione di intermediari e collaboratori segna il tentativo di difendere la collettività contro la dissoluzione.
In termini marxisti, è il momento in cui la violenza cessa di essere mera difesa e diventa forma organizzata della sopravvivenza politica. E in questo scontro, la resistenza si definisce non per la purezza delle sue intenzioni, ma per la capacità di mantenere vivo il principio collettivo dentro la catastrofe. Difendere il legame comune significa riconquistare il potere delle condizioni materiali, strappare la miseria al profitto e restituirle la sua storia.
Hamas, dunque, sta realmente reprimendo reti di contrabbando e clan collaborazionisti. Questo produce un effetto politico di ri-centralizzazione che, pur privo di una prospettiva socialista, agisce come meccanismo di autoconservazione e, oggettivamente, rallenta la dissoluzione della società palestinese sotto l’assedio. È una forma di autodifesa organizzativa che conserva il senso del comune dentro la devastazione, impedendo legami obliqui e minacce interne.
La storia di Hamas, è la storia di una resistenza che ha incorporato la propria negazione. Nata come dispositivo coloniale di divisione, è divenuta il suo avversario più ostinato. Dopo il 7 ottobre, le Brigate al-Qassam si sono ritrovare a riaccendere la dimensione combattente della lotta, mentre la dirigenza politica ha dovuto reggere un popolo affamato. Nelle due dimensioni – militare e politica – convissute in tensione permanente, la violenza e l’organizzazione si sono sostenute a vicenda, in un equilibrio precario ma vitale.
La cosiddetta “pace di Trump”, in questo scenario, presentata come cessate-il-fuoco e promessa di stabilità, non ha spezzato l’ordine coloniale – lo ha semplicemente riscritto. Ha mutato la forma della violenza, non la sua sostanza. Israele ha compreso che per mantenere il dominio non era più necessaria la guerra aperta, ma la sua continuità economica. L’accordo voluto da Washington – e sostenuto dalle monarchie del Golfo – ha inaugurato un nuovo paradigma: sostituire la conquista militare con l’integrazione economica, la distruzione con la dipendenza. È la stessa logica del capitale globale, che non conquista più territori ma infrastrutture, stabilendone i flussi.
Quella che venne celebrata come “pace” è stata quindi la transizione a una guerra economica: un sistema di controllo in cui la logistica, la finanza e la cooperazione internazionale si rinsaldano come strumenti del potere coloniale. Gli Stati Uniti forniscono a Israele non soltanto armi, ma una legittimazione strategica: la possibilità di presentarsi come garante dell’ordine e della ricostruzione. Nel suo discorso del 13 ottobre al Knesset, Donald Trump si è vantato di aver “dato a Israele tutto ciò di cui aveva bisogno” e di aver visto Netanyahu “usare bene quelle risorse”. Dietro quell’elogio si nascondeva l’essenza del nuovo assetto geopolitico: la forza militare israeliana è oggi il braccio operativo del capitale occidentale nella regione, lo strumento attraverso cui l’imperialismo si traveste da stabilizzazione.
L’obiettivo è evidente: neutralizzare la componente militante di Hamas, favorire la sua borghesia compradora e sostituire la resistenza con una classe dirigente palestinese subordinata agli investimenti stranieri. È la stessa strategia già sperimentata in Iraq, in Libia, in Afghanistan – la ricostruzione come dominio economico. Gaza, tuttavia, è sempre stata un’anomalia: un territorio dove la resistenza conserva radici popolari e la distruzione non può essere facilmente convertita in mercato. Qui la devastazione non produce solo macerie: ma coscienza e non genera soltanto dipendenza, ma forme di organizzazione autonoma.
Le ristrutturazioni interne di Hamas, per quanto dure, rispondono anche a questa logica: impedire che la ricostruzione diventi nuovo terreno d’accumulazione privata. Riaffermando il proprio controllo, il movimento tenta di bloccare la transizione dal capitalismo del contrabbando al capitalismo degli aiuti – di evitare che la dipendenza economica sostituisca l’assedio militare. La “pace Trump”, in questo senso, non interrompe la guerra ma la rende invisibile, spostandola dal cielo alle transazioni e dai missili ai contratti. La distruzione come funzione produttiva, e la fame, una forma di governo.
Mentre Gaza sopravvive nella tregua, la Cisgiordania si prepara alla prossima fase della storia. Qui la guerra non è mai esplosa apertamente, ma si è istituzionalizzata sotto forma di occupazione permanente: checkpoint, colonie, forze ausiliarie e burocrazie di controllo. È il laboratorio del futuro assetto regionale in un territorio dove la violenza si è fatta amministrazione e la subordinazione è divenuta cooperazione economica. L’Autorità Nazionale Palestinese, guidata da una classe burocratica logorata e dipendente dagli aiuti occidentali, rappresenta oggi la forma più compiuta della borghesia palestinese asservita. Nata come mediazione, è divenuta apparato di contenimento. In essa si compie il passaggio dalla resistenza al governo, e dal governo alla gestione della dipendenza. Ogni trasferimento di fondi europei o statunitensi, ogni progetto di “sviluppo sostenibile” ad oggi e in futuro, nelle città di Ramallah e Jenin, sarà dunque l’altra faccia dell’assedio: la penetrazione del capitale nella struttura sociale, la trasformazione della speranza in debito. La Cisgiordania è infatti, il volto civile della stessa guerra che a Gaza assume forma militare. Mentre nella Striscia la fame è diretta e brutale, qui si traveste da sviluppo. L’oppressione prende il linguaggio delle ONG, delle startup, della cooperazione. È la nuova economia del disordine: il capitale non si limita più a distruggere, ma produce caos per governarlo.
Israele e le potenze occidentali hanno ormai compreso che la stabilità non è più il fine, ma lo strumento – un equilibrio perpetuamente instabile che consente di mantenere il dominio. La frammentazione della Palestina, il dualismo Gaza-Cisgiordania, non è una debolezza del sistema ma la sua condizione di esistenza. L’una è il monito, l’altra il modello: la fame e il credito come due forme della stessa dipendenza. E tuttavia, anche qui, la storia non è chiusa.
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