Il 3 ottobre 2025 non è stato un giorno come gli altri. È stato il momento in cui l’Italia, compressa da anni di compatibilità, ha spezzato la sua gabbia e si è presentata per quello che ancora è: un terreno di conflitto.
Non è stata la commemorazione di un dramma lontano, ma la messa a nudo del legame immediato tra il massacro in Palestina e la vita quotidiana della classe lavoratrice in Italia. Lo sciopero è esploso perché Gaza non era un tema esterno: Gaza era dentro i porti, dentro gli interporti, nei container che partono da Prato, nei carichi che transitano da Genova e Livorno, nei flussi ferroviari che da Milano a Bologna collegano la spina dorsale del paese.
Il 3 ottobre è stato un atto di internazionalismo concreto, ma anche la manifestazione di un malessere materiale, accumulato in anni di precarietà, salari strozzati, servizi pubblici devastati. Gaza è stata scintilla, ma la polveriera era la composizione sociale italiana, stanca di compatibilità e pronta alla rottura.
Le cifre, pur contese tra stime sindacali e questurine, parlano da sole. Roma è stata invasa da una marea che ha toccato quota 300.000 secondo la CGIL, mentre altre valutazioni più caute parlano di 80.000-100.000.
In ogni caso, il centro della capitale è rimasto paralizzato: da piazza Vittorio a Termini il traffico è stato bloccato per ore, con cortei che hanno tentato deviazioni verso la tangenziale. La stazione Termini è stata più volte occupata a singhiozzo, con binari fermati, convogli ad alta velocità cancellati e ritardi sulla rete nazionale.
Milano ha replicato con la stessa forza: 100.000 persone in piazza, la Stazione Centrale occupata in più momenti, binari invasi, convogli Alta Velocità fermi, treni regionali soppressi. Si è toccato con mano che quando i binari si fermano, non è solo il trasporto passeggeri a bloccarsi, ma anche il cuore dei flussi di merci che attraversano il corridoio padano.
Genova ha visto circa 40.000 persone riversarsi sui varchi portuali di Sampierdarena e Albertazzi. Le banchine paralizzate, i TIR in coda chilometrica, container fermi. La stazione Principe è stata teatro di presidi e blocchi che hanno imposto ritardi ai convogli regionali.
Torino ha portato in piazza tra 40.000 e 60.000 manifestanti, un corteo che ha attraversato chilometri di città, da Porta Susa a piazza Castello. Binari laterali della cintura ferroviaria sono stati occupati per ore, i convogli di pendolari sospesi.
Napoli ha oscillato tra i 20.000 stimati dalle fonti moderate e i 40-50.000 rivendicati dai promotori. In ogni caso, la città è stata paralizzata: corteo da piazza Garibaldi a piazza Municipio, la linea 1 della metro chiusa, la stazione Centrale bloccata da presidi, treni a lunga percorrenza cancellati o dirottati.
Bologna ha conosciuto migliaia di manifestanti in piazza Malpighi, ma soprattutto ha mostrato l’immagine che rimarrà della giornata: l’autostrada A14 chiusa, cariche di polizia sugli svincoli, blocchi ferroviari che hanno rallentato treni AV e regionali.
E poi Firenze, la vera sorpresa. La CGIL aveva parlato di 20.000, ma la realtà è stata molto più alta: almeno 50.000 persone, forse 60.000 (altre stime indicano anche nell’ordine di 100.000) secondo fonti locali, un corteo che ha attraversato i viali, ha occupato piazza della Stazione, ha toccato i binari di Santa Maria Novella. Convogli regionali cancellati, rallentamenti sulla tratta Firenze-Pisa e Firenze-Roma. La città, spesso piegata alle liturgie istituzionali, ha mostrato un volto insubordinato.
A Livorno due cortei distinti ( quello sindacale e quello studentesco) si sono fusi ai varchi portuali, bloccando Zara e Darsena Toscana; presidi alla stazione hanno interrotto le corse locali.
A Pisa il corteo ha toccato le migliaia, con blocchi in piazza delle Vettovaglie e alla stazione; a Lucca si sono contate decine di migliaia tra studenti e lavoratori, con presidi ferroviari che hanno fermato la tratta verso Firenze; Siena e Pistoia hanno visto cortei studenteschi e presidi alle stazioni, segno che la Toscana nel suo complesso è stata attraversata.
E Infine Prato: l’interporto fermato da oltre duecento manifestanti, i camion incolonnati per ore, le merci dirette anche verso Israele intercettate e respinte, la circolazione spezzata. È in quella paralisi materiale che lo sciopero ha trovato la sua forma più radicale: non la pura esposizione simbolica di bandiere, ma l’interruzione concreta dei flussi; alcuna la retorica del dissenso, solo la pratica viva del blocco.
Vicenza si è ritrovata con migliaia di persone al casello Est e sulla tangenziale, mentre la stazione è stata paralizzata da blocchi spontanei.
Trento ha riempito piazza Dante con migliaia, e per un’ora la linea del Brennero è stata interrotta. Pesaro ha visto 1.500 manifestanti, il doppio della volta precedente, con presidi ferroviari che hanno costretto alla cancellazione di convogli locali.
Potenza e Matera, per anni fuori dal radar delle mobilitazioni, hanno visto piazze piene di migliaia, con presidi davanti alle stazioni.
A Cagliari migliaia hanno invaso piazza Yenne, con studenti che hanno occupato i binari della stazione centrale.
Il dato complessivo rivendicato dalla CGIL parla di oltre due milioni in cento piazze. Probabilmente sovrastimato, ma non del tutto fantasioso: se si contano le metropoli, le città medie, i porti, le stazioni, l’ordine di grandezza resta quello delle centinaia di migliaia. Un unicum in Europa, come hanno riconosciuto anche agenzie internazionali.
Sul piano giuridico, la Commissione di Garanzia ha dichiarato lo sciopero illegittimo. Si è appellata alla legge 146/1990, che regola gli scioperi nei servizi pubblici essenziali, imponendo un preavviso di almeno dieci giorni e limitazioni alle fasce orarie.
L’USB e la CGIL avevano invocato l’articolo 2, comma 7, che consente astensione senza preavviso in casi eccezionali, ma il Garante ha definito l’eccezionalità “inconferente”. Il messaggio era chiaro: la legalità è gabbia, e chi non la rispetta sarà bollato come illegittimo. Ma la verità del 3 ottobre è stata che la legittimità è nata dal basso: non dai decreti, ma dai corpi che hanno smesso di produrre e di far circolare.
Il governo ha scelto la via della delegittimazione. Meloni ha parlato di “sciopero per farsi il ponte lungo”, riducendo milioni di persone a furbizia da weekend. Ha minacciato sanzioni: “chi sciopera fuori dai termini rischia conseguenze”. Ha cercato di piegare lo sciopero sotto il peso della paura salariale. Ma non ha osato la precettazione generale: sapeva che reprimere apertamente avrebbe acceso ancora di più le piazze. Ha lasciato che fossero le forze dell’ordine a colpire in punti selettivi: cariche a Bologna sugli svincoli dell’A14, lacrimogeni a Milano attorno alla Centrale, spintoni e manganellate a Genova e Roma in periferia. Non repressione totale, ma colpi mirati, monito di ciò che potrebbe accadere se la classe decidesse di riprovarci.
Il 3 ottobre ha mostrato anche la differenza profonda tra le organizzazioni sindacali. La CGIL, spinta dall’urgenza della base, ha proclamato lo sciopero pur sapendo di andare contro la legge e contro il verdetto del Garante. Ma non si è trattato di una scelta rivoluzionaria per i suoi stessi vertici: piuttosto una mossa tattica, un gesto di autodifesa per non lasciare campo libero ai sindacati di base. Landini del resto, ha interpretato spesso il ruolo del pompiere, capace di accendere il fuoco quando la pressione sociale lo impone, ma altrettanto rapido a spegnerlo e a ricondurlo dentro le compatibilità istituzionali. La storia della CGIL recente lo conferma: una macchina organizzativa poderosa, in grado di portare in piazza centinaia di migliaia di persone, ma sempre pronta a rientrare nei ranghi, a farsi garante della stabilità del quadro. La sua funzione storica non è più quella di rompere, ma di contenere.
Diverso è stato il ruolo dell’USB e dei Sì Cobas. Non sigle marginali, ma avanguardie capaci di leggere il presente e di indicare il punto nevralgico: la logistica come cuore della valorizzazione capitalistica. L’USB è stata la prima a proclamare, la prima a indicare porti, interporti, stazioni come bersagli. Non ha parlato in astratto, ha colpito la materialità dei flussi. Questo gesto non è solo organizzativo, ma politico: ha mostrato la coscienza che oggi la forza del lavoro si esercita non solo dentro le fabbriche, ma nei nodi della circolazione, là dove merci e persone si muovono e il capitale realizza il suo dominio.
I Sì Cobas hanno avuto l’intelligenza tattica di garantire la copertura legale: la loro proclamazione, depositata nei tempi previsti, ha reso possibile a settori pubblici come scuola, sanità, trasporto di aderire senza paura di sanzioni. Paradossalmente, proprio il sindacato accusato per decenni di illegalismo si è trovato ad essere pienamente coerente. Ma questo paradosso rivela un dato più profondo: la legittimità non nasce dal rispetto della norma, bensì dalla capacità di trasformare la rabbia sociale in gesto concreto.
USB e Sì Cobas – ma soprattutto e protagonista USB – hanno dimostrato di non essere fragili, ma capaci di catalizzare. Hanno saputo saldare studenti, migranti, operai della logistica, lavoratori precari, cittadini comuni. Hanno dato forza a un movimento che non si è limitato alla testimonianza, ma che ha occupato binari, bloccato porti, fermato interporti. Hanno indicato una direzione rivoluzionaria nel senso più marxista: colpire la riproduzione del capitale, non soltanto denunciarla. È questo il loro tratto di forza, che ha reso il 3 ottobre qualcosa di più di una manifestazione: lo ha reso un atto di potere sociale.
La giornata ha così sancito una asimmetria evidente: da un lato la CGIL, apparato capace di muovere numeri enormi ma destinato a rientrare nei ranghi; dall’altro i sindacati di base, meno estesi ma capaci di dare la radicalità del gesto e di tradurre l’internazionalismo in blocco concreto. Non esiste ancora un fronte stabile che tenga insieme queste due dimensioni, ma il fatto che siano scese in campo nello stesso giorno ha prodotto una rottura nei rapporti di forza che non potrà essere facilmente ricomposta. È in questa faglia che si apre lo spazio della possibilità: perché la massa portata dalla CGIL e la radicalità incarnata da USB e Cobas, se mai dovessero incontrarsi davvero, potrebbero generare un processo dirompente.
Il 3 ottobre non nasce dal nulla. È il precipitato di una lunga genealogia di lotte italiane che hanno fatto della capacità di fermare la circolazione il proprio tratto distintivo. Dal dopoguerra alle grandi stagioni dell’autunno caldo, dalle lotte contro i missili di Comiso negli anni Ottanta al G8 di Genova nel 2001, fino alla gigantesca marcia del 2003 contro la guerra in Iraq, l’Italia ha conosciuto momenti in cui la questione internazionale si è intrecciata con la lotta di classe interna. Ma allora, per quanto imponenti, si trattava soprattutto di manifestazioni di massa, cortei che non toccavano la riproduzione immediata del capitale. Il 2025, invece, ha segnato un salto qualitativo: lo sciopero politico non come rito, ma come interdizione materiale. Porti bloccati, treni cancellati, interporti paralizzati: non semplici parole d’ordine, ma atti concreti di sospensione della valorizzazione.Questa differenza spiega perché l’Italia è stata guardata con tanta attenzione anche dall’estero. Reuters ha raccontato oltre cento città mobilitate, definendo l’Italia “un caso unico in Europa”. Il Financial Times ha sottolineato che nessun altro grande sindacato confederale europeo ha proclamato uno sciopero generale contro la guerra. El País ha registrato che in Francia, Germania e Spagna le manifestazioni ci sono state, ma si sono fermate alla testimonianza: cortei, assemblee, piazze, senza mai interrompere i flussi. In Italia, invece, i treni si sono fermati, i porti sono rimasti vuoti, i camion bloccati ai varchi, gli interporti deserti.
Ed è fondamentale cogliere il carattere di questo blocco. Non è stata una mera trasmissione sindacale dall’alto, non è bastata la convocazione di una sigla per fermare il Paese. È stata una mobilitazione di massa che ha ecceduto ogni perimetro precostituito: studenti che hanno invaso le stazioni, operai che hanno lasciato i turni per presidiare i binari, precari e migranti che hanno bloccato i varchi dei porti, insegnanti che hanno trasformato lo sciopero in didattica di strada, cittadini che mai prima avevano attraversato un corteo e che si sono ritrovati a sedersi sulle rotaie o davanti ai camion. Non solo proletariato in senso stretto, ma un intreccio eterogeneo, interclassista, che ha ampliato la portata del gesto collettivo. Gaza ha catalizzato una rabbia sociale diffusa, trasformandola in forza autonoma capace di spezzare l’ordinarietà. È proprio questa eccedenza che ha reso il 3 ottobre irriducibile alle liturgie dell’opposizione compatibile. Non una parata rituale, ma un atto di potere. Non un corteo di maniera, ma un blocco reale. La proclamazione sindacale ha aperto uno spazio, ma è stata la variegata composizione di classe a riempirlo, superando i confini tra lavoro organizzato e settori popolari diffusi. Ed è in questo passaggio che si produce il salto politico: la legalità formale della legge 146/1990 e delle minacce del Garante si è infranta contro la materialità di corpi che hanno scelto di occupare binari e bloccare camion. Non è stata disobbedienza civile, ma conflitto sociale.
Il governo lo ha percepito con chiarezza. Meloni ha provato a ridicolizzare la giornata come “ponte lungo”, ha minacciato sanzioni, ha evocato il rischio per chi sciopera. Ma non ha osato la precettazione generale, non ha scatenato la repressione di massa. Ha lasciato che le forze dell’ordine colpissero in punti selezionati: cariche a Bologna sugli svincoli dell’A14, lacrimogeni a Milano attorno alla Centrale, manganellate a Genova e Roma. Colpi mirati, ma non guerra aperta. La sua arroganza è stata specchio della sua fragilità: sapeva che un intervento repressivo generalizzato avrebbe incendiato le piazze.
Qui emergono i punti di forza.
Primo: la logistica è stata colpita, e il capitale ha mostrato la sua vulnerabilità nei nodi della circolazione.
Secondo: la convergenza tra sindacati di base e CGIL, per quanto tattica, ha permesso di coniugare radicalità e massa.
Terzo: la partecipazione studentesca e giovanile ha riaperto un fronte che mancava da anni, intrecciando antimilitarismo e lotta sociale.
Quarto: la legittimità politica ha prevalso sulla legalità formale.
Quinto: l’attenzione internazionale ha riconosciuto l’Italia come laboratorio.
Ma ci sono anche i punti di debolezza. La CGIL resta un corpo ambivalente: oggi ha scelto l’”illegalità politica” per non restare fuori, domani si ricompatta. USB e Sì Cobas non hanno ancora la forza per reggere da soli la scala nazionale. La convergenza resta delicata. E soprattutto, senza continuità, il rischio di riflusso è reale. Se il 3 ottobre resta isolato, sarà un lampo.
Eppure in questo lampo si sono aperti scenari nuovi ed è giusto parlare di rottura. Una frattura nei rapporti di forza, nella percezione di ciò che è legittimo, nella pratica stessa del conflitto. Uno strappo che mostra che la guerra non è un affare estero, ma interno, che Gaza non è lontana, ma attraversa salari, logistica, welfare. È in questa rottura che si può accumulare nuova forza, nuova composizione, nuova pratica.
L’Italia torna così a essere osservatorio internazionale. Non lo è perché sta per insorgere, non perché si stia aprendo un processo immediatamente rivoluzionario, ma perché ha mostrato che l’antagonismo non è un reperto del passato ma una possibilità viva, che la composizione sociale frammentata può ancora coagularsi in un gesto collettivo capace di spezzare l’ordine. Ha mostrato che la solidarietà non è parola retorica ma potenza materiale, che un porto bloccato o un binario occupato valgono più di mille dichiarazioni di principio. Ha mostrato che la legittimità non si misura nei decreti del Garante né nelle caricature di un governo che tenta di ridurre la rabbia sociale ad una battuta micragnosa come quella del “ponte lungo” ma nella capacità della classe di sottrarsi all’obbedienza e di interrompere i flussi del capitale.
Ha mostrato, soprattutto, che nel cuore dell’Europa c’è ancora spazio per uno scarto: fragile, incerto, ma reale. E che se questo saprà trovare continuità, organizzazione, accumulazione di forza autonoma, potrà aprire scenari che vadano oltre l’episodio e oltre la testimonianza. È questo il compito che si affaccia oggi: non lasciar richiudere la crepa, ma farla diventare faglia, terreno, possibilità.
L’Italia del 3 ottobre ha dato una lezione di conflitto. E i movimenti antagonisti hanno colto l’essenziale: non un rito da archiviare, ma una pratica che riapre possibilità. La classe, nelle sue molteplici articolazioni, si è data come forza collettiva, capace di interrompere i flussi del capitale e di rimettere la lotta di classe al centro dell’Europa e l’Italia come laboratorio vivo, come terreno di rottura, come spazio in cui la possibilità non è promessa ma pratica.