Quando Incoronata Boccia dichiara che “non esiste una sola prova che Israele abbia mitragliato civili inermi”, compie un atto di potere. Le sue parole non registrano un fatto, lo sostituiscono. Decidono ciò che può essere creduto e ciò che deve restare sospeso. La lingua dell’informazione pubblica non rappresenta il reale, ma ne stabilisce i limiti. In quel momento, la verità smette di essere un contenuto e diventa una funzione.
Nel discorso dell’autorità, la credibilità di un evento dipende dalla sua compatibilità con l’ordine simbolico del potere. Ogni informazione passa attraverso un meccanismo di selezione che distingue ciò che può essere detto da ciò che deve scomparire. L’affermazione “non esiste prova” non introduce prudenza, ma indebolisce la realtà. Sposta il dolore in un’area di ambiguità dove l’esperienza si dissolve. Il massacro diventa ipotesi e la sofferenza si trasforma in sospensione. La verità perde concretezza e si riduce a una procedura di verifica senza fine.
La frase di Boccia non nasce da ignoranza. È l’espressione coerente di una struttura di potere che parla attraverso di lei. L’informazione pubblica ha il compito di mantenere il sistema in equilibrio. Ogni messaggio è calibrato per garantire fiducia e continuità. Il discorso ufficiale organizza, distribuisce, regola. Il suo scopo non è la conoscenza, ma la stabilità. La lingua di Stato diventa il mezzo attraverso cui la realtà viene resa presentabile, e la presentabilità coincide con la legittimità.
La negazione, in questo contesto, è una forma di governo. Le parole pronunciate creano presenza, quelle escluse producono assenza. Dire “non esiste prova” istituisce un vuoto, una sospensione che legittima la rimozione. Il dolore, una volta trasmesso attraverso l’apparato, perde forza. Si riduce a materiale di archivio, reso inoffensivo dal linguaggio che lo contiene. L’informazione pubblica non cancella l’orrore: lo tratta, lo riduce a documento, lo gestisce come contenuto. Il potere amministra l’invisibile attraverso la parola.
Chi opera all’interno di un apparato non descrive la realtà, la ripete. La lingua del potere è impersonale e non si estingue con i suoi interpreti. Ogni figura che la pronuncia viene sostituita, ma la voce resta. L’informazione istituzionale sottrae la verità al campo dell’esperienza e la riconsegna alla burocrazia della comunicazione. La menzogna funziona come metodo di produzione del consenso. Definisce il perimetro dell’ascolto, fissa la posizione di chi parla, stabilisce la distanza tra chi dispone della parola e chi ne è escluso. Il potere informativo non si misura dal numero di notizie, ma dalla capacità di determinare che cosa è degno di esserlo.La lingua pubblica agisce come filtro e come gerarchia. Decide ciò che può apparire e ciò che deve restare invisibile. Distribuisce la parola, seleziona chi ha diritto di espressione, assegna a ciascuno un ruolo nella rappresentazione. La realtà viene trasformata in risorsa comunicativa. L’informazione assume il volto della trasparenza, ma opera come meccanismo di controllo.Le parole della funzionaria ne sono un esempio preciso. Sospendono la verità, collocano il dolore in una zona di neutralità, offrono al potere la possibilità di apparire razionale. La violenza diventa questione di interpretazione. Ogni giudizio può essere rinviato ma soprattutto, ogni colpa relativizzata. Il discorso istituzionale impedisce che il reale si traduca in accusa. Il linguaggio conserva la sua funzione politica che non è quella rappresentare, semmai di contenere. L’atto di parola diventa forma di conservazione. La negazione della prova non è errore di valutazione, è la riaffermazione della struttura. L’informazione di Stato non elimina la violenza, la inserisce in un sistema che la giustifica. Il dolore perde la sua forza di verità e diventa elemento di continuità.Ogni istituzione linguistica risponde a un mandato politico. L’informazione pubblica rappresenta la forma più complessa del potere amministrativo. Non ha il compito di raccontare la realtà, ma di produrne una versione coerente. La sua funzione non è quella di cercare la verità, ma di garantire continuità. L’apparato mediatico trasforma il potere in normalità e l’ordine in ciò che appare evidente.
La RAI incarna questo principio. Non è un organismo culturale, ma una macchina politica. Nella sua architettura si riflette la tradizione di un Paese che ha sempre inteso la comunicazione come forma di governo. L’idea di servizio pubblico nasce da un’esigenza di controllo più che di emancipazione. Il concetto stesso di “servizio” presuppone subordinazione, distanza, direzione univoca.
Fin dalle origini, l’emittente di Stato ha funzionato come laboratorio di omologazione. Le sue immagini hanno tradotto la storia in racconto di stabilità. La violenza è stata reinterpretata come coesione e la crisi come ricomposizione. Ogni frattura è stata riassorbita nella retorica della continuità. La RAI ha presentato ogni crisi come qualcosa di normale, trasformando le interruzioni e i conflitti in tappe di una storia positiva (come accadde con gli anni ’70, ridotti nel racconto televisivo a un periodo di smarrimento e disordine, quando in realtà furono una delle stagioni più alte di coscienza politica e di conflitto sociale).Durante gli anni del blocco, la funzione dell’apparato era disciplinare. L’informazione pubblica educava le coscienze alla docilità e alla sicurezza. L’obiettivo era la formazione di soggetti compatibili con l’ordine, non di cittadini critici. Telegiornale, radio e divulgazione culturale partecipavano allo stesso compito: garantire che la politica si presentasse come destino. Il sistema mediatico riproduceva, sul piano simbolico, la stessa logica della produzione materiale: addestrare, organizzare, rendere stabile la subordinazione.Sotto ogni governo, la RAI ha conservato la stessa struttura. Le voci cambiavano, ma il dispositivo restava identico. L’emittente sceglieva i temi, controllava i toni, stabiliva i confini del discorso. La censura non si imponeva con il silenzio, ma attraverso la forma. Quello che appariva pluralismo era in realtà selezione. Ogni programma conteneva un limite implicito che definiva ciò che poteva essere riconosciuto come reale.
Con l’espansione dell’economia dei consumi, la missione dell’apparato si è adattata alla nuova fase del capitale. La funzione esplicitamente politica si è convertita in funzione culturale, mantenendo intatta la logica del controllo. L’emittente pubblica è diventata un mezzo di integrazione simbolica, utile a produrre consenso e a modellare la percezione del presente. L’identificazione ha sostituito la riflessione; la partecipazione è stata tradotta in consumo. La comunicazione televisiva ha progressivamente dissolto l’esperienza politica dentro il costume, trasformando la cittadinanza in pubblico permanente.
La dichiarazione di Boccia, dunque, non è un incidente. Appartiene alla genealogia dell’apparato. Negli anni del blocco la censura assumeva il nome della prudenza, durante le guerre del Golfo quello della neutralità, oggi si presenta come esigenza di verifica. Ogni epoca cambia il lessico dell’obbedienza, ma la RAI ne resta il luogo più fedele.
L’informazione di Stato agisce come dispositivo di stabilità. Riduce il mondo a un ordine compatibile. Quando la portavoce afferma “mancanza di prove”, riscrive il dolore come incertezza. La violenza diventa opinione e la verità viene trattenuta in un campo autorizzato. Il potere ancora prima che adesione, chiede convergenza. L’apparato garantisce che ogni evento sia reso innocuo. La catastrofe deve apparire, ma senza produrre conseguenze.
Le parole pronunciate ieri mostrano con chiarezza la logica che le sostiene. L’idea stessa di prova riproduce la gerarchia epistemica dell’Occidente: solo ciò che viene convalidato dalle sue istituzioni può essere considerato vero. Le testimonianze dirette, le immagini, le voci dal campo restano sospese, prive di legittimità. È la civiltà imperiale che parla ancora, attraverso la grammatica dell’informazione pubblica.
La RAI agisce come organo politico. È un organo politico. Ogni sua dichiarazione risponde a un principio di disciplina simbolica. Il pluralismo è scenografia, la stabilità il fine reale. Il governo trova in questa lingua il proprio strumento di continuità. La politica di Stato si realizza nell’apparato come in una burocrazia parallela. I funzionari cambiano, ma la voce resta. La censura si è interiorizzata. Non occorrono divieti espliciti: bastano figure che parlano credendo di esercitare una funzione tecnica. L’informazione pubblica è un sistema di gestione della parola, dove il discorso è trattato come risorsa da distribuire e sorvegliare.
La narrazione è divenuta forza produttiva. Organizza la percezione, modella la memoria, stabilisce il campo del pensabile. Ogni messaggio diffuso dall’apparato assicura che il senso comune coincida con la logica del mercato. La comunicazione si è trasformata in forma di accumulazione simbolica. Il discorso del potere occupa lo spazio del reale e lo restituisce come necessità.
Dentro questo ordine la menzogna è principio operativo. Funziona come forma di continuità del capitale. Mantiene in movimento il sistema e nasconde la sua origine storica. La falsità costituisce la grammatica della sopravvivenza del potere. La parola, svuotata della propria autonomia, agisce come strumento di riproduzione sociale. La sua ripetizione costante conserva la finzione del progresso e protegge la struttura del dominio.
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