L’Europa nacque per difendersi da se stessa. Dopo le guerre, la classe del capitale impose la stabilità come forma di dominio e sottomise la politica alla produzione. Da allora la sua architettura è rimasta la stessa: contenere ogni forma di conflitto, garantire continuità ai processi di accumulazione, addestrare i cittadini a pensare la pace come assenza di movimento.
Nel tempo, il linguaggio giuridico ha sostituito quello politico. Si è imparato a dire “stato di diritto” per intendere sicurezza e “governance”, per dire obbedienza. La legge è divenuta un dispositivo di equilibrio: non protegge, piuttosto, regola. Chi devia viene corretto, chi resiste viene incluso o isolato a seconda delle convenienze.
Dentro questo contesto, la storia di Ilaria Salis non è un’anomalia, semmai il sintomo di tutto questo. A Budapest una donna italiana viene arrestata per aver manifestato contro il raduno annuale dei nostalgici del Reich (tralaltro: non vi è una prova a suo carico dei crimini imputati). Viene tenuta in prigione mesi, esposta, umiliata. La sua colpa è politica: ha violato un tabù, ha contestato un rito fondativo di un Paese che vive la memoria del fascismo come identità nazionale.
L’Ungheria di Viktor Orbán non si presenta come dittatura ma come modello efficiente. È uno Stato dove il potere non ha bisogno di gridare: basta la forma. La giustizia funziona come pedagogia, di cui, la punizione, è il proprio linguaggio. Quando Ilaria Salis viene eletta deputata europea, quel linguaggio entra in crisi. Un corpo che doveva essere prova d’ordine si trasforma in rappresentanza. Orbán reagisce chiedendo la revoca dell’immunità, per ristabilire il principio che la legge ungherese è più alta di ogni mandato popolare.
Il Parlamento europeo, di fronte alla richiesta, mostra la propria fragilità. Non discute del significato politico dell’arresto, ma del calendario dei fatti. Il dibattito si riduce a una formula burocratica: “i fatti sono precedenti al mandato”. La votazione, 306 contro 305, racconta la sostanza del presente europeo: una democrazia che vive di equilibri contabili, non di convinzioni.
I gruppi di destra e di centrodestra si muovono in blocco. Weber detta la linea per il PPE, Köster la ripete, l’ECR (European Conservatives and Reformists) di Giorgia Meloni la amplifica. L’obiettivo è evitare che un caso politico diventi un precedente. L’Italia fornisce la sua eco più caricaturale. Salvini invoca rispetto per la giustizia ungherese, Tajani parla di regole e i liberali tacciono. Tutti convergono nella stessa direzione: salvare la forma anche quando la forma copre la violenza.
Dietro questo atteggiamento c’è una logica economica. L’Ungheria è una zona industriale che serve alla produzione europea. Le grandi aziende tedesche – BMW, Audi, Mercedes – vi hanno spostato parte della filiera. Gli stipendi bassi e i sindacati deboli sono l’infrastruttura silenziosa di questa alleanza. Orbán garantisce stabilità ai mercati e un modello di controllo sociale che Bruxelles non può permettersi di criticare apertamente.
La questione energetica inoltre, consolida il legame. Il governo ungherese mantiene rapporti strutturali con la Russia per gas, petrolio e nucleare, ma contemporaneamente si accredita come partner per la transizione. L’Europa ha bisogno del suo consenso per far passare decisioni chiave, e questo gli consente di negoziare da una posizione di forza. In cambio, riceve fondi, legittimità e un silenzio complice.
La destra europea non si oppone a questo sistema, lo rappresenta. In Francia la Le Pen si prepara a governare, in Germania AfD cresce nella normalità quotidiana, in Austria l’FPÖ guida i sondaggi, nei Paesi Bassi Wilders detta l’agenda, in Spagna Vox orienta la destra moderata, in Italia Giorgia Meloni governa nel nome di una rispettabilità costruita sulla rimozione del fascismo. Il nuovo autoritarismo non ha più bisogno di simboli: basta la gestione.
In questo panorama, la figura di Ilaria Salis non è un’eroina, ma una crepa. Il suo caso obbliga l’Europa a guardarsi e ricorda che sotto la superficie dei trattati sopravvive un principio antico: la libertà vale solo se non disturba l’ordine economico. Ogni volta che una persona mette in crisi questo principio, il sistema reagisce con violenza amministrativa.
L’Ungheria continuerà a usare la sua vicenda come moneta di scambio. Potrà riproporre la richiesta di revoca dell’immunità, trascinarla nei tribunali, mantenerla in uno stato di precarietà politica. La propaganda lavora nello stesso modo: i media filogovernativi ungheresi la trattano da criminale, quelli italiani vicini alla destra insinuano dubbi, distorcono, riducono. È il dispositivo della paura: lo strumento con cui si trasmette l’idea che la ribellione morale sia una minaccia per l’ordine.
Il caso Salis, però, ha aperto una fenditura che non si richiude. Mostra come l’Unione europea sia disposta a sacrificare i propri principi in nome della convenienza. Svela la distanza tra il linguaggio dei diritti e la realtà della produzione. Mostra, soprattutto, che la democrazia borghese non si fonda sulla coscienza ma sull’equilibrio di forze. Finché ci sarà chi rifiuta di piegarsi al potere che trasforma il privilegio in legalità, la storia non sarà pacificata e non perché esista un destino di giustizia, ma perché la contraddizione che attraversa il capitale non conosce soluzione. L’ordine europeo vive dentro la propria crisi e sopravvive gestendola. Ogni volta che una voce si sottrae al consenso, il meccanismo deve ricalcolarsi.Il gesto di Ilaria Salis non è puro né simbolico. È un frammento della lotta reale che ancora attraversa il continente. Ricorda che l’antifascismo non è un cerimoniale, ma un modo di stare al mondo quando la legge smette di proteggere.In tutto ciò, vi è una verità sottaciuta e che non è possibile ammettere da parte delle classi dominanti, ossia la possibilità che la resistenza, che ogni resistenza diventi organizzazione. Per questo trasforma il dissenso in fascicolo giudiziario, derubrica l’insubordinazione (intesa e verificata come disallineamento dello stato delle cose reali) in episodio da commentare e dimenticare. È un sistema che non colpisce per distruggere, ma per stancare.
A maggior ragione in questo contesto, l’antifascismo non è (soltanto) una virtù ma una necessità materiale. È la forma che assume la lotta di classe quando il dominio si traveste da democrazia. Resistere non si semplifica unicamente nel credere in un ideale, ma negare la logica che rende accettabile la barbarie.
L’Europa, piuttosto, continuerà a usare la giustizia come strumento del potere e la legge come forma del capitale, perché è nata per questo: per custodire l’equilibrio della borghesia e trasformare la disuguaglianza in ordine. La politica, in questa architettura, non è che amministrazione del comando. Ma finché dentro quella macchina si produrrà anche solo un gesto di negazione, la storia non sarà chiusa. È nei margini, dove le soggettività produttive si sottraggono al ruolo che il potere assegna loro, che il conflitto torna a farsi politico. Lì la coscienza collettiva si rigenera come rottura, e la lotta di classe riafferma la propria necessità contro la pace apparente del capitale. E la storia, che il potere vorrebbe fissare in equilibrio, continua invece a respirare nel punto in cui qualcuno sceglie di spezzarne la quiete.
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