Il 18 ottobre 2025, a Firenze, non si è trattato di una semplice rivendicazione vertenziale, per quanto conflittuale, ma di un momento in cui le contraddizioni materiali del capitalismo italiano si sono rese leggibili con un’evidenza che non ammette interpretazioni evasive.
In quella giornata, il corteo dei lavoratori della GKN di Campi Bisenzio – insieme a studenti, precari, sindacalisti indipendenti, attivisti ecologisti e militanti della solidarietà internazionale – ha superato i confini stabiliti dalle autorità per muovere verso l’aeroporto di Peretola in un atto di profonda consapevolezza: l’aeroporto è oggi infatti, una delle forme più dense del potere economico, luogo dove il tempo si misura in velocità e la produttività si identifica con la circolazione. Spostare la lotta verso quel punto ha significato colpire il centro reale del comando capitalistico contemporaneo.
Per rispolverare un po’ di storia recente e meno recente, va fatto un piccolo accenno alla GKN, che è sempre stata altro da un semplice impianto produttivo. Prima della chiusura decretata da Melrose Industries, la fabbrica aveva generato un’esperienza di autorganizzazione che travalicava i confini del sindacalismo tradizionale. Il collettivo di fabbrica – già precedente alla chiusura – non si costituì come risposta alla crisi, ma come forma di coscienza preventiva: un modo per restituire al lavoro la capacità di pensarsi come soggetto politico. Dentro quelle assemblee, tra le linee e i macchinari, si costruiva una lingua che non era quella della contrattazione, ma dell’analisi. Gli operai discutevano non solo di orari e salari, ma della struttura stessa del ciclo produttivo, della logica che li avvolgeva, dell’intreccio tra finanza e industria che definiva il loro destino.
Quando arrivò la decisione di chiudere, la coscienza era già pronta. Nessuno, in quella fabbrica, poteva credere alla retorica del “mercato” o alle favole della “modernizzazione”. Tutti avevano visto, giorno dopo giorno, come il valore venisse spostato, come le decisioni fossero prese lontano, in consigli d’amministrazione che trattavano gli stabilimenti come asset mobili, non come luoghi di lavoro. La chiusura della GKN fu, da questo punto di vista, un atto perfettamente coerente con la logica del capitale finanziario: non distruzione di un’impresa inefficiente, ma conversione di una produzione concreta in rendita speculativa. Melrose non fallì; portò a termine un’operazione di estrazione.
E in questo GKN, è stata lo specchio più fedele dei processi di valorizzazione dato che ciò che distingue la fase attuale del capitalismo non è tanto la crisi della produzione, ma la sua delocalizzazione “ontologica”. Il capitale non ha più bisogno di fabbriche per accumulare valore: gli basta amministrare i flussi. È il passaggio, già descritto da Marx, dalla sussunzione formale alla sussunzione reale della società sotto il capitale. Tutto diventa parte del processo produttivo: il traffico, il tempo di consegna, il consumo, la connessione digitale. La fabbrica si è dissolta nel mondo e il mondo è diventato una fabbrica senza mura.Da qui all’aereporto, il passaggio è veloce. Questo non si realizza come simbolo, ma è una struttura essenziale: l’espressione materiale di un modello economico che fonda il proprio dominio sulla mobilità. Ogni decollo e ogni atterraggio incorporano una quota di valore, e ogni ritardo si traduce in perdita. L’ordine globale si regge sulla fluidità del movimento, e la logistica ne costituisce l’ossatura ideologica. Dove il fordismo aveva ordinato la produzione attorno al tempo del lavoro; il capitalismo logistico, invece, ordina il mondo attorno alla velocità. La fabbrica disciplinava le vite nel tempo, ma la logistica ne governa ora lo spazio: ciò che un tempo era il ritmo della catena di montaggio, oggi è il calcolo della connessione.
Il 18 ottobre, attraversando Firenze, il corteo ha reso visibile questa verità: che il conflitto non abita più soltanto nei luoghi del lavoro, ma nei nodi della circolazione. Bloccare un aeroporto significa colpire il principio stesso della valorizzazione. Il capitale, che vive della continuità del flusso e dell’immediatezza dello scambio, non teme la crisi che può reintegrare nel proprio ciclo come momento di ristrutturazione, ma la sospensione, che ne rivela il limite strutturale. Nell’arresto del movimento si manifesta la sua dipendenza dal lavoro vivo, unica fonte reale del valore. Finché la circolazione rimane ininterrotta, questa dipendenza resta invisibile; ma ogni interruzione, anche minima, dissolve la finzione della sua autonomia e lo riconsegna alla sua condizione originaria: tempo morto che solo il lavoro umano può rianimare.Di fronte alla nuova configurazione del capitale, lo Stato, allora, non può che assumere la forma richiesta dallo stesso processo di accumulazione, garantendo la stabilità del sistema. La sua funzione, ancor prima che di mediazione tra capitale e lavoro, è di tutela delle condizioni generali della catena di comando: assicurare che la circolazione non si interrompa, che il tempo del profitto resti continuo, che lo spazio economico rimanga disponibile e disciplinato.Cariche, decreti, divieti, processi, licenziamenti, schedature diventano, così, momenti di una strategia coerente. Il potere non reprime per timore del disordine, ma per paura della stasi, perché l’immobilità è l’anticamera del crollo. Ogni interruzione della circolazione di merci, di vite o di dati, è percepita come minaccia sistemica, poiché in essa si rivela la verità che il capitale tenta di occultare, ossia che il valore non nasce dal movimento, ma dal lavoro vivo che esso cerca di neutralizzare.
La GKN, nei propri percorsi assembleari e di lavoro, aveva costruito un’altra idea di continuità e dopo la chiusura, il collettivo non si è dissolto, trasformando la fabbrica in spazio di comunità. Le mense, i laboratori, le assemblee aperte, i progetti di riconversione ecologica: tutto questo non è stato un tentativo di sopravvivenza, ma una sperimentazione di autogoverno. Là dove il capitale aveva lasciato un vuoto, gli operai hanno creato una forma di vita. E in quella forma, la produzione è tornata a essere relazione, non subordinazione.
Questo passaggio, nella sua apparente modestia, è un fatto storico. Significa che la classe lavoratrice, privata della mediazione statale era stata più che capace, d’esprimere capacità costituente. Non nel senso romantico di una rivoluzione alle porte, ma nella costruzione quotidiana di un sapere comune. Ogni progetto del collettivo (dall’uso sociale della fabbrica alle iniziative pubbliche) ha rappresentato una piccola sovversione della logica dominante: dimostrare che è possibile organizzare la produzione senza proprietari.
L’aeroporto e la fabbrica, ieri, hanno parlato da due estremi dello stesso meccanismo di accumulazione. L’aeroporto: figura della circolazione illimitata, del tempo astratto, della mobilità che trasforma ogni distanza in merce. La fabbrica: residuo concreto della produzione materiale, luogo in cui la potenza del lavoro vivo resiste alla pura logica del flusso. Il loro incontro non è stato un gesto simbolico, ma un evento di verità: la saldatura tra due forme del capitale che il comando capitalistico tende a mantenere distinte per preservare la propria egemonia.
Ciò che la manifestazione di Firenze ha voluto rendere evidente è proprio la fine della distinzione tra produzione e circolazione. Nel capitalismo contemporaneo, la produzione si realizza nel movimento stesso: il flusso è la nuova fabbrica, e ogni transito è tempo di lavoro. Il capitale ha inglobato il mondo nel proprio “metabolismo”, e la logistica ne è diventata la forma visibile di comando. Di fronte a questo rovesciamento, la politica non può più limitarsi a rivendicare salari o contratti: deve intervenire sui dispositivi che governano il tempo e lo spazio, là dove la vita viene continuamente tradotta in valore.
La violenza poliziesca – che non si è fatta attendere – assolve inoltre ad una funzione precisa: un potere incapace di produrre consenso lo sostituisce con la gestione della sicurezza. Non difende un ordine politico, ma la stabilità di un equilibrio economico, trasformando la città nel proprio laboratorio di sorveglianza integrale: droni, telecamere, algoritmi predittivi, dispositivi biometrici. È la stessa razionalità che anima la logistica: controllo, previsione, eliminazione dell’imprevisto. In un simile sistema, il vero pericolo non è il disordine, ma la deviazione: il corteo che non rispetta il percorso, il gesto che interrompe la circolazione, la presenza umana che restituisce allo spazio la sua storia.
Ma la deviazione è, in realtà, la sostanza stessa del politico: è il momento in cui la prassi interrompe l’automatismo del meccanismo. Fermarsi, in un’epoca che ha fatto del movimento la propria fede, significa restituire al tempo la sua dimensione umana. Ogni blocco è un atto di conoscenza materiale: la coscienza che nasce dal contatto tra il lavoro e i suoi limiti. Forzando il tragitto e spingendosi verso Peretola, si è generato un evento di pensiero collettivo: una forma di sapere che si produce nell’azione, nel canto, nella resistenza fisica alla forza che tenta di ricondurre all’ordine.
L’importanza di questa esperienza risiede nella capacità di legare la propria condizione locale a un quadro generale. Nessuno, nel collettivo, ha mai pensato alla GKN come un caso isolato. La sua vicenda è stata letta come sintomo di un processo globale: la finanziarizzazione dell’industria, la trasformazione dei lavoratori in residui, la riduzione dello Stato a garante della rendita. Da qui è nata una solidarietà non di forma ma d’analisi: con i portuali di Genova, con i lavoratori della logistica di Piacenza, con i movimenti ecologisti, con i militanti palestinesi. Ogni lotta, nel suo specifico, è stata la coordinata di un’unica mappa.
Quando nel corteo fiorentino sventolavano le bandiere della Palestina, non era certo per rito politico né per convenzione simbolica ma piuttosto perché venisse riconosciuta una verità materiale: che guerra ed economia appartengono allo stesso dispositivo di comando. Gaza è il luogo dove la logistica e la violenza coincidono. I confini, i droni, i check-point sono le versioni militari dello stesso principio che regola i magazzini globali: la gestione dello spazio come valore. La guerra non è il fallimento del mercato, ma il suo prolungamento. Dove la merce non arriva, arriva l’esercito. E quando la distruzione è terminata, ricomincia la ricostruzione, cioè un altro ciclo di profitto.
Il legame tra GKN e Palestina, tra Firenze e Gaza, non è dunque una metafora ma una relazione materiale. Entrambe rappresentano territori sotto amministrazione: la fabbrica dismessa e il campo assediato. In entrambi i casi vige la logica dell’accumulazione. E in entrambi i casi, la resistenza consiste nel creare spazi di cooperazione non mediata, di autonomia concreta.
E poi, qualcosa sta cambiando. Non in superficie, ma nella struttura che sostiene il presente. Ciò che appare come una successione di eventi è in realtà la manifestazione di una stessa direzione: il conflitto non è più residuo, ma torna a essere il principio motore della storia. Dopo decenni in cui la politica è stata ridotta ad una rappresentazione svuotata di senso e il lavoro disperso, invisibilizzato, frammentato, ora riemerge finalmente come soggetto. E ogni volta che questo accade, la risposta del potere è la violenza non come eccezione, ma come metodo.
La violenza di Stato d’altronde, è la forma stabile del governo contemporaneo, il linguaggio con cui il capitale difende le proprie prerogative e ristabilisce l’ordine quando l’equilibrio vacilla. Le manganellate di Firenze non sono un eccesso d’ordine pubblico, ma la forma che assume oggi la governance. Lo stesso schema si ripete a Genova, dove i portuali che rifiutano di caricare le armi dirette a Israele vengono trattati come sabotatori; a Pisa, dove gli studenti vengono colpiti per aver manifestato contro la guerra; a Bologna, dove le università vengono chiuse come centri di produzione del dissenso; a Torino, dove i sindacati di base vengono incriminati per “interruzione di servizio pubblico”; a Napoli, dove i quartieri popolari vengono militarizzati in nome della sicurezza e del turismo.
Ovunque, il linguaggio è identico: difendere la continuità, preservare la circolazione, proteggere l’ordine. Ma la gestione del conflitto è segno di potenza solo in apparenza ed indice di un equilibrio che si incrina. L’uso sistematico della forza rivela che il consenso si è logorato: ciò che un tempo si otteneva attraverso il consenso integrato, ora si conserva mediante la minaccia. In questo passaggio, il capitale, spogliato della propria maschera, mostra il suo volto autentico: la violenza come fondamento dell’ordine.
La fase che pare delinearsi, non è soltanto politica, ma antropologica. Il lavoro, dopo essere stato dissolto nelle reti della logistica, ricomincia a riconoscersi come forza collettiva. Non più il lavoro fordista, né la figura eroica dell’operaio, ma un insieme molteplice di soggettività che attraversano l’intero ciclo della riproduzione: le infermiere e i rider, gli studenti e i migranti, i ricercatori e le braccianti, le donne che tengono in vita il tessuto sociale e gli operai che resistono nelle fabbriche dismesse. È la stessa energia sociale che il capitale sfrutta e che, in determinate condizioni, torna a organizzarsi contro la propria logica.
La cooperazione non è più solo mezzo di produzione, ma campo di battaglia. È nei magazzini di Amazon in Germania e in Polonia, nei porti di Oakland e di Genova, nei call center di Napoli e di Buenos Aires, nelle piattaforme digitali dove il lavoro cognitivo viene scomposto in frammenti. È nei territori devastati dal turismo, dove le comunità lottano contro la privatizzazione dell’aria e dell’acqua; nelle campagne del Sud Italia, dove i braccianti migranti creano sindacati autonomi; nelle università francesi, dove gli studenti rifiutano la complicità con la guerra; nelle piazze di Parigi e Marsiglia, dove la riforma delle pensioni ha riaperto una coscienza di classe che si credeva perduta.
Ogni luogo diventa laboratorio di una nuova composizione. A Berlino, gli inquilini che si oppongono alla speculazione immobiliare e riscoprono la dimensione collettiva della proprietà. A Barcellona, i lavoratori dei trasporti incrociano le lotte ecologiste contro la rendita energetica. A Londra, i ferrovieri, i medici e gli insegnanti scioperano insieme, dopo decenni di divisione sindacale. In America Latina, il femminismo e l’indigenismo si intrecciano come critica dell’accumulazione: il corpo e la terra come due forme di espropriazione. In Africa, le rivolte contro le basi militari straniere sono lotte per il controllo delle risorse, ma anche per il riconoscimento politico di un’altra autodeterminazione.
E in Medio Oriente, la Palestina resta il paradigma della produzione distruttiva: il luogo in cui la guerra e l’economia coincidono senza residui.La soglia che stiamo attraversando non è annunciata da nessuno, ma si manifesta ovunque e sta nella capacità di questi movimenti di riconoscersi senza uniformarsi, di organizzarsi senza rappresentarsi, segnando la fine della lunga restaurazione neoliberale e della sua ideologia: la promessa di libertà individuale in cambio di precarietà collettiva.
La repressione, in questo contesto, è la conferma di un limite che si è fatto visibile. Là dove le classi dominanti non riescono più a governare attraverso il consenso, lo fanno attraverso la paura. Ma ogni volta che la paura si diffonde, si forma una contro-narrazione. Le cariche di Firenze, le denunce di Torino, gli arresti di Parigi o di Istanbul non spezzano i legami, li rafforzano e gli algoritmi che sorvegliano i magazzini vengono sabotati (negli hub di Amazon in Germania, Polonia, Francia e Stati Uniti, i lavoratori scioperano contro i tempi di scansione imposti dal controllo algoritmico: ogni fermata, ogni pausa, ogni rifiuto di “scannerizzare” una merce diventa un sabotaggio del flusso). In Italia, da Piacenza a Castel San Giovanni, gli scioperi della logistica, hanno lo stesso significato: fermare i nastri significa rendere visibile il potere del lavoro vivo su quello delle macchine. I contratti a termine si trasformano in assemblee spontanee, le università si fanno officine di contro-educazione.
Questa nuova fase nasce dalla disperazione. Il capitale ha spinto il mondo fino al limite della propria sostenibilità (climatica, sociale, psichica) ma di fronte a questo collasso, la vita non si ritira: si organizza. Nella crisi, la classe torna a delinearsi ricomponendosi contro la frammentazione. Il sistema pretende di governare ogni movimento, ma è proprio il movimento – del lavoro, dei saperi, delle relazioni – a segnare il suo limite storico.
Da Firenze a Gaza, da Genova a Oakland, da Bologna a Buenos Aires, la stessa energia attraversa il mondo sotto forme diverse: ogni interruzione incrina il tempo del capitale e apre, nella sua frattura, la possibilità di un’altra storia.
L’aeroporto di Firenze e la fabbrica di Campi Bisenzio appartengono dunque alla stessa architettura della macchina del dominio. Non le unisce solo il territorio, ma la funzione di garantire la continuità della riproduzione. E tuttavia, in questa stessa continuità, si cela la possibilità della crisi. Quando il flusso si interrompe, anche solo per un istante, la superficie liscia del mondo si incrina: la macchina della valorizzazione che pretende di essere chiusa e autosufficiente, rivela la propria natura di relazione instabile, di ordine che sopravvive solo finché il lavoro lo sostiene.
Per questo le lotte della logistica, del lavoro, del clima e della vita, non sono conflitti settoriali, ma esperimenti di nuova internazionalità. L’internazionalismo del presente nasce da una tensione che, nel rovesciamento della logica che governa la circolazione, assume inevitabilmente una forma politica. È il capitale stesso ad aver unificato il mondo nella forma della connessione globale; ed è da quella stessa rete che oggi prende corpo la possibilità della “diserzione”.
Ovunque, dal basso, ci si organizza per interrompere la circolazione delle merci, delle armi, delle informazioni. Non si tratta di nostalgie operaie, ma di una nuova forma di conoscenza: significa restituire alla storia il proprio respiro. Le proteste di questi mesi rivelano infatti una rete di insubordinazioni intrecciate: studenti e portuali, braccianti e insegnanti, migranti e ricercatori, donne e lavoratori digitali. Tutti agiscono contro la stessa struttura: l’assoggettamento della vita alla circolazione del valore. Le lotte femministe, ecologiche, sindacali e anticoloniali non sono percorsi paralleli, ma convergenze di uno stesso impulso collettivo a difendere la vita dalla sua riduzione a merce.Ogni sciopero nella logistica, ogni blocco nei porti, ogni sabotaggio digitale, ogni rifiuto di cura è un atto di riappropriazione del tempo. Quando i lavoratori dei magazzini rifiutano i tempi imposti dagli algoritmi, o quando le donne sospendono il lavoro invisibile, accade la stessa cosa: la vita interrompe la sua traduzione economica e torna a esistere come forza autonoma. Per un attimo, l’urgenza del capitale si rovescia in possibilità.E la repressione che attraversa il mondo, non è la prova della forza del potere, ma del suo esaurimento: il capitale tenta di trasformare ogni rivolta in crisi, ma è la crisi, ormai, la sua forma di esistenza. L’internazionalismo che riaffiora oggi nasce da una condizione condivisa: la consapevolezza che la vita è il comune espropriato dal capitale e che non cerca riconoscimento, ma la possibilità di esistere fuori dalla misura del profitto.
Controbilanciare il monopolio della forza è dunque l’esistente che riprende a pensare se stessa come collettività. L’aeroporto, la fabbrica, la piazza, il mare, la rete: non sono più luoghi distinti, ma articolazioni di un’unica materia politica. Non è un miraggio, ma un processo reale: ciò che accade ogni volta che l’intelligenza collettiva si sottrae al calcolo e diventa solidarietà, ogni volta che la produttività si trasforma in resistenza, ogni volta che il mondo, anche solo per un istante, smette di funzionare secondo la sua logica e ricomincia a respirare.
Perché tale sistema non sfrutta solo il tempo di lavoro, ma il tempo tout court – quello della cura, dell’apprendimento, dell’attenzione, dell’amore. Ed è in questo spazio che oggi si misura la nuova contraddizione tra la vita come risorsa e la vita come potenza, frattura da cui possono germogliare le lotte del presente come atto di insubordinazione.
Il ciclo che si apre, comprensibilmente, non sarà né lineare né facilmente riconoscibile. Avrà la forma delle occupazioni e dei blocchi, ma anche quella delle pratiche quotidiane che restituiscono tempo e parola, che rifiutano la competizione come destino e la solitudine come norma. È un orizzonte da cui già si intravede un campo ampio che faccia emergere una soggettività capace di praticare la sottrazione del comando: un esodo e una ricomposizione in grado di riplasmare il senso stesso del vivere comune.
Così, quando un corteo devia, quando una piazza resiste, quando una voce infrange la disciplina del silenzio, sarà non solo una rottura dell’ordine, ma un atto di produzione storica, il momento in cui la vita torna a pensarsi come forza e la politica come creazione. Ed ogni interruzione, ogni ritardo, ogni gesto di solidarietà, il frammento di una nuova storia materiale.
E allora il compito non è (solo) immaginare un altro mondo, ma continuare a renderlo possibile ogni giorno.
Nelle fabbriche, nei porti, nelle scuole, nei quartieri, nei margini, ovunque le nostre condizioni materiali trovino ancora il coraggio di pronunciarsi contro la misura che le comprimono.
Perché ogni volta che un ordine si incrina, che una mano si tende, che un respiro si riprende, la lotta di classe ricomincia: non per miracolo, ma per necessità.
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