La lotta per la casa è una lotta per la vita

Ho impiegato tempo a scrivere di ciò che è accaduto. Ogni volta che cercavo le parole, qualcosa dentro si spezzava, come se il respiro stesso esitasse davanti alle immagini. Famiglie con bambini trascinate fuori, muri abbattuti, oggetti dispersi sul pavimento: frammenti di una vita interrotta che continuano a parlare anche dopo il silenzio. La violenza non urla, si compie con la freddezza di un atto amministrativo. Tutto avviene secondo procedura, tutto trova posto nei registri, e proprio in questa precisione si rivela la sostanza del potere: la capacità di infliggere ferite reali con il linguaggio impersonale della burocrazia.

Qui lo spazio non nasce dal vuoto ma dalla sua organizzazione. Ogni sfratto si inscrive nel ciclo che unisce territorio, capitale e Stato in un unico corpo produttivo. Il suolo urbano agisce come forza-lavoro: accumula valore mentre viene spostato, calcolato e infine amministrato. La città si rinnova consumando se stessa, e nel suo respiro si confondono economia e governo. Ogni documento che autorizza uno sgombero, ogni parete che cede, ogni oggetto contato partecipa alla stessa operazione di produzione. L’abitare diventa elemento della catena del profitto, la casa nodo della sua circolazione. Qui la materia non svanisce, si riorganizza secondo la legge dell’accumulazione: ogni spostamento di vita partecipa alla disciplina produttiva che regge il potere economico. La sostanza sociale del lavoro è assorbita nella circolazione del capitale, e la vita, ridotta a funzione del valore, continua il proprio corso dentro l’ordine imposto dalla necessità storica.A Bologna, in via Michelino, lo sgombero ha reso visibile una contraddizione che attraversa molte città italiane: la casa, bene primario e luogo di vita, è diventata strumento di investimento. Le famiglie coinvolte non erano inadempienti; alcune pagavano regolarmente l’affitto, altre avevano situazioni sospese, ma tutte vivevano in equilibrio fragile, reso incerto dall’aumento dei costi e dalla mancanza di alternative pubbliche. L’intervento delle forze dell’ordine, deciso dopo anni di rinvii e mediazioni, è stato brutale: bambini, perfino un neonato, trascinati fuori in strada. La scena non ha mostrato solo la durezza del gesto, ma la distanza che oggi separa la vita reale dai calcoli amministrativi che regolano il territorio.

L’edificio sorge in un’area strategica per la rendita urbana, vicino alla fiera e a zone di alto interesse turistico. Diverse fonti confermano che la proprietà intende riconvertirlo verso affitti brevi e strutture ricettive, nonostante le smentite ufficiali. È un processo diffuso: le abitazioni vengono sottratte alla funzione residenziale e reimmesse nel mercato turistico, dove i ricavi sono maggiori. Ciò che un tempo rappresentava un diritto sociale – la stabilità dell’abitare – oggi rientra nel ciclo di valorizzazione economica del territorio.

Il Comune di Bologna, pur dichiarando di voler tutelare i diritti abitativi, è stretto tra due forze: la pressione del mercato immobiliare e la scarsità di alloggi pubblici. Negli ultimi anni la città ha incrementato gli accordi con operatori privati per la gestione del patrimonio edilizio e ha destinato risorse alla “rigenerazione” dei quartieri centrali, con l’effetto di alzare i valori immobiliari e spingere le fasce più deboli verso la periferia.

Sia bene inteso: chi non riesce a pagare un affitto non perde il diritto ad abitare. L’abitare è condizione di dignità e partecipazione, e ogni politica che nega questo principio produce esclusione. Quando lo spazio è regolato solo dalla redditività, la città smette di essere comunità e diventa dispositivo economico. In via Michelino non è stato punito un reato, ma riaffermato un modello: una città che privilegia la funzione turistica rispetto a quella sociale, la rendita rispetto al radicamento e la circolazione del denaro rispetto alla stabilità delle vite.

L’esperienza dell’abitare assume la forma di una funzione produttiva. L’unità immobiliare diventa parte del ciclo di accumulazione e misura la propria esistenza nella capacità di generare rendita in tempi sempre più brevi. Il suolo non è più superficie ma meccanismo dove la ricchezza si produce attraverso la mobilità e la sostituzione. Ogni sgombero rinnova il processo di valorizzazione, ordina lo spazio, riattiva flussi di capitale che scorrono come una corrente continua. Nel movimento generale, il tempo umano si comprime nella durata del profitto: lavoro, casa e relazioni restano inglobati nella stessa sequenza economica. La povertà entra nei conti come riserva strutturale, spazio necessario alla riproduzione dell’equilibrio urbano.

I numeri locali confermano il disegno. Nel 2022 a Bologna si registrano 180 convalide di sfratto, 124 per morosità e 56 per finita locazione. Nel 2023, nei primi nove mesi, il sindacato degli inquilini rileva 718 provvedimenti, 513 per morosità e 205 per finita locazione. In Emilia-Romagna, nel 2024, si contano 2.801 provvedimenti, 8.642 richieste di esecuzione e 1.799 sfratti eseguiti. L’Osservatorio regionale registra che l’insolvenza forzata resta la componente prevalente – circa il 75% – mentre la “fine locazione” cresce nelle aree a maggiore domanda, tra cui Bologna, Parma, Modena e Rimini. Una parte significativa delle espulsioni non riguarda la violazione di una norma, ma la logica dei flussi: la “fine locazione” risulta compatibile con l’aumento degli affitti brevi e con la ristrutturazione del mercato verso la massimizzazione del rendimento.

Il quadro amministrativo partecipa pienamente a questa trasformazione. L’organizzazione istituzionale si muove come parte del meccanismo di produzione, stabilendo forme e modalità della sua continuità. Protocolli tra enti locali, autorità giudiziarie e soggetti privati costruiscono la grammatica dell’esecuzione, trasformando l’intervento coercitivo in pratica ordinaria di governo. Il linguaggio tecnico assorbe il conflitto e lo riconsegna come amministrazione; la legge si fa ingranaggio della pianificazione economica.

Nel contesto bolognese, le politiche abitative si inseriscono in questo schema. Intese e linee guida definiscono la geografia della rendita, mentre i fondi destinati alla “morosità incolpevole” mostrano l’insufficienza strutturale dell’apparato: risorse limitate, procedure lente, domanda sociale eccedente. Lo Stato territoriale non si limita ad agire: nel suo stesso operare crea il campo in cui prende forma la vita sociale. Ogni funzione, ogni spazio, ogni tempo vengono ordinati attraverso la norma e tradotti in operatività economica. L’amministrazione diventa pratica produttiva, trasforma il territorio in struttura contabile: fa della continuità della vita la materia stessa della pianificazione.

L’esperienza bolognese si iscrive in una traiettoria storica definita. La liberalizzazione del mercato delle locazioni alla fine degli anni Novanta segna l’avvio della fase in cui la città entra nel ciclo dei beni strategici. La dismissione del patrimonio pubblico, i vincoli di bilancio e la crisi che trasforma la povertà in parametro amministrativo consolidano un modello di governo urbano fondato sulla rendita. L’urbanistica non elabora più visioni collettive, ma dispone portafogli di valore. Le zone si compongono secondo indici di rendimento; le funzioni vengono riallocate dove la rendita mostra maggiore capacità di espansione. L’abitare di lungo periodo diventa voce di spesa, da razionalizzare.

Su scala nazionale il quadro è identico. Tra il 2021 e il 2024 si registrano in media “quarantamila convalide di sfratto” all’anno – un numero che mantiene costante la pressione abitativa. Le richieste di esecuzione aumentano e la “fine locazione” cresce nei poli turistici e universitari, dove la rotazione degli immobili garantisce margini più alti. Gli indicatori regionali confermano: l’insolvenza resta la causa principale, ma la riconversione verso affitti brevi modifica la funzione stessa dell’abitare. La città italiana assume la sintassi della città-impresa: stabilità fiscale ancorata alla rendita, sicurezza come controllo della marginalità, patrimonio pubblico come liquidità, pianificazione tradotta in valorizzazione.

Bologna è al centro di questo dispositivo. La crisi abitativa non viene affrontata come emergenza, ma amministrata secondo logiche di efficienza. Il linguaggio politico parla di “rigenerazione”, “piani metropolitani”, “abitare sostenibile”, ma i dati raccontano aumento dei canoni, rilascio di alloggi verso usi temporanei, pressione crescente sulle aree ad alta domanda. La “fine locazione” diventa strumento di regolazione, l’insolvenza misura la distanza fra reddito e costo della vita che nessun sussidio colma. Bologna, come molte città di flusso, non vive di salario ma di movimento: il turista che ruota ogni pochi giorni, lo studente con contratto breve, il professionista in transito. L’amministrazione non interrompe questo processo: lo registra, lo accompagna, talvolta lo favorisce.

Il perché di questa guerra ai poveri si chiarisce nel passaggio dalla fabbrica al territorio come principale luogo di valorizzazione. L’accumulazione cerca la rendita fondiaria per la rapidità e la misurabilità del margine rispetto al tempo lungo della produzione industriale. Il territorio urbano diventa macchina fiscale: base imponibile, imposte immobiliari, attrazione di capitale attraverso la promessa di “vivibilità” e “decoro”. Gli spazi abitati vengono progressivamente integrati nel ritmo della rotazione del valore, che tende a trasformare la permanenza in flusso, la stabilità in mobilità controllata. La città si riorganizza secondo un tempo breve, dove corpi, funzioni e prezzi si muovono nella stessa corrente globale della valorizzazione. La povertà non è scarto ma variabile di governo: misura, minaccia e risorsa insieme. Misura, perché indica la pressione massima del ciclo; minaccia, perché rivela l’insostenibilità sociale; risorsa, perché legittima politiche di controllo che consolidano il dispositivo. La città-impresa si stabilizza sul paradosso: rimuovere presenza e invocare sicurezza; invocare sicurezza e catturare rendita.

Il percorso che da Bologna attraversa le altre città rivela una stessa architettura di potere, una continuità che lega territori diversi dentro un unico modello di valorizzazione. Alcuni numeri ne delineano i contorni materiali:

Milano manifesta un mercato immobiliare cresciuto in pochi anni di circa il 40%, con canoni medi oltre 21 €/mq e una parte ampia di famiglie a basso reddito ormai escluse dagli alloggi stabili; il protocollo di “gestione pacifica” traduce la violenza della rimozione in amministrazione ordinaria.

Roma registra circa 5.000 sentenze di sfratto l’anno e un incremento del 27% degli affitti brevi; i tempi di assegnazione dell’ERP superano i due anni e la vendita di immobili pubblici sostiene i bilanci riducendo la disponibilità sociale.

Torino converte spazi industriali in residenze temporanee e campus, normalizzando gli sgomberi all’interno dei coordinamenti prefettizi: la forza diventa burocrazia, la burocrazia metodo di governo.

Firenze misura la prosperità sulla rendita turistica – canoni aumentati del 30% in cinque anni, oltre metà del centro storico destinato a locazioni brevi, più di 1.000 sfratti l’anno mentre la “fine locazione” cresce nei quartieri turistici.

Napoli e Palermo, con redditi medi tra i più bassi, vivono una pianificazione che sottrae: patrimoni pubblici alienati, migliaia di famiglie in lista d’attesa, progetti di “valorizzazione” che privatizzano isolati interi e consolidano l’espulsione sociale.

L’urbanizzazione procede come accumulazione per espropriazione: spazio, tempo ed esistenza si intrecciano nella stessa trama produttiva che sostiene la riproduzione del capitale. Ogni componente della città – muri, corpi, superfici, vuoti – partecipa al medesimo dispositivo di valorizzazione, dove la misura economica si confonde con la forma del vivere. L’urbanistica funziona come finanza territoriale, la legge come organizzazione materiale della produzione, la violenza come modalità di governo che assicura la continuità del sistema. L’amministrazione, in questo intreccio, non si distingue dall’ordine che genera: ne costituisce la presenza stabile, la sostanza che orienta e prolunga nel tempo la forma stessa del potere.

Dentro questa forma storica la resistenza non si estingue: si manifesta nei gesti quotidiani della permanenza, nelle assemblee di quartiere, negli sportelli casa, nelle reti di mutuo soccorso, nelle mense popolari, negli spazi riaperti e condivisi. Queste pratiche costruiscono tempo comune, un tempo che prolunga la vita sociale oltre la misura economica. La memoria dei legami diventa tessuto del presente, la cooperazione consolida ciò che il capitale tenta di dissolvere, la solidarietà organizza la forza collettiva. La soggettività politica prende forma nel bisogno materiale di abitare e nella continuità della cura: non unicamente come opposizione, ma come processo vivo di ricomposizione del mondo.

Il nodo bolognese mostra come la proprietà operi come principio organizzativo della vita urbana. Prezzi, tempi, funzioni e relazioni si dispongono dentro un sistema amministrativo che unisce forza e contabilità nella stessa trama. Il lavoro, la cura e la comunità si muovono entro questa rete, producendo e riproducendo il tessuto della città. In ogni trasformazione resta una traccia: esperienze, saperi, legami che continuano a generare presenza. Da questa continuità emerge la politica come pratica della vita stessa, radicata nel quotidiano e capace di dare forma collettiva al reale

Eppure anche nel campo del riformismo esistono dispositivi che potrebbero esprimere una contro-politica urbana e articolarsi in tre direttrici.

Il primo asse: diritto all’abitare come permanenza. Non dichiarazione astratta, ma riconoscimento della funzione sociale della casa, irriducibile al profitto. Questo implica strumenti vincolanti sui canoni, riconversione dello stock verso ERP e locazioni stabili, moratorie nelle fasi di crisi, controllo degli affitti brevi attraverso soglie che difendano la residenza.

Il secondo asse: finanza locale liberata dalla dipendenza immobiliare. Un bilancio costruito sul gettito della rendita produce espulsioni sistemiche; superare questa condizione significa agire sulla fiscalità generale, riconoscere la residenza come infrastruttura sociale e restituire al patrimonio la funzione di bene comune.

Il terzo asse: istituzioni del comune come infrastruttura di durata. Le pratiche dal basso chiedono strumenti: patti cogenti di collaborazione, fondi rotativi per l’autorecupero, garanzie pubbliche sui contratti calmierati, sportelli unificati per prevenire il salto nella “fine locazione”, tavoli con potere di sospensione nelle fasi di massima pressione.

Il campo istituzionale però non offre affidabilità politica ed è immobile soprattutto – e non solo – per le ragioni già analizzate: la subordinazione della politica municipale al vincolo fiscale, la dipendenza dei bilanci dalla rendita immobiliare, la trasformazione della burocrazia in apparato tecnico del capitale ma perché il proprio stallo si realizza soprattutto come un metodo di conservazione dell’ordine economico. Dentro questa inerzia si mantiene il principio di governo del presente. La costruzione politica, per esistere, si dispiega allora nel terreno concreto della vita quotidiana, nello spazio in cui la città continua ad abitarsi, difendersi e organizzarsi giorno dopo giorno.

È necessario semmai e a noi di organizzare focolai di cooperazione e insorgenza civile. Le assemblee popolari nei quartieri, gli sportelli casa autogestiti, i blocchi solidali contro gli sfratti, le reti di mutuo soccorso che distribuiscono beni e conoscenze: tutto ciò costituisce la spina dorsale di una città che resiste. Gli spazi occupati e restituiti all’uso collettivo diventano centri di formazione politica e culturale, scuole informali, mense, biblioteche, laboratori, presidi sanitari minimi. Ogni volta che un luogo torna alla comunità, la rendita arretra.

Le forme di controinformazione sono altrettanto decisive: giornali di quartiere, archivi digitali delle ingiustizie abitative, reti di documentazione che uniscono studenti, precari, lavoratori, ricercatori. La parola pubblica sottratta ai canali del potere diventa pratica materiale di resistenza, perché costruisce memoria e svela i nessi tra economia, violenza e decisione politica.

Anche l’economia può essere riarticolata dal basso. Cantieri sociali di riappropriazione (esempi ne abbiamo proprio a Bologna e non solo: dall’ex scuola occupata “Galaxy”, agli spazi autogestiti di Napoli Est e al “Gabrio” di Torino – dove abitanti, studenti e lavoratori precari recuperano scuole, magazzini e fabbriche dismesse per farne mense popolari, laboratori, biblioteche e luoghi di mutuo soccorso, trasformando il vuoto urbano in materia politica e la cura in forma di resistenza collettiva), fondi autogestiti per il pagamento collettivo degli affitti, filiere mutualistiche, sistemi di scambio non monetari che reintegrano i bisogni fuori dal circuito della rendita. Queste esperienze non sono alternative astratte: agiscono dentro la crisi, la abitano, ne deviano l’esito.

Nelle città che dichiarano “rigenerazione”, occorre costruire riproduzione. Nei territori dove il linguaggio del decoro serve a cancellare la povertà, occorre opporre la presenza organizzata, la visibilità dei corpi uniti nella difesa del diritto a restare. Picchetti antisfratto, manifestazioni permanenti, reti di avvocati e architetti solidali, media indipendenti capaci di smascherare la propaganda delle amministrazioni: sono pratiche che non aspettano l’autorizzazione ma producono diritto nella realtà.

La città che nasce da queste esperienze non ha bisogno di legittimazioni. È una città viva che cresce sotto quella amministrata, una città che non chiede di essere riconosciuta ma costringe il potere a riconoscere la sua esistenza. È l’inizio di un’altra organizzazione possibile: lenta, concreta, collettiva.

L’urgenza non è solo resistere, ma costruire continuità. La lotta per la casa è una lotta per la vita. Ogni blocco, ogni assemblea, ogni gesto di solidarietà diventa un punto d’appoggio nella lunga battaglia per liberare la città dalla logica della rendita. L’insorgenza non è disordine: è l’ordine nuovo che si forma nella pratica.

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