Ogni epoca di crisi produce figure che ne rappresentano la transizione.

Ogni epoca di crisi produce figure che ne rappresentano la transizione. Sono volti nuovi di un ordine che cerca di sopravvivere trasformando la propria immagine. In queste fasi, la continuità del potere si maschera da rinnovamento e l’egemonia assume le sembianze di una rigenerazione morale. L’elezione di Zohran Mamdani a sindaco di New York appartiene a questa logica storica: il capitalismo muta linguaggio, ma conserva struttura e dominio.

Ciò che appare come svolta politica è il tentativo del sistema di riconquistare legittimità dopo decenni di crisi, guerre, disuguaglianze e sfiducia. Mamdani è un prodotto di questa fase di riconversione. È il segno di una civiltà che tenta di elaborare le proprie colpe senza rinunciare al proprio potere. Il suo successo non è l’inizio di una rivoluzione, ma il sintomo di una ristrutturazione ideologica dell’impero americano, che trova nella morale la nuova forma della propria autorità.

Il capitalismo, giunto alla sua maturità finanziaria, tende a giustificarsi non più con la produttività o il progresso, ma con la compassione e l’inclusione. Quando l’accumulazione entra in crisi, la borghesia trasforma la moralità in strumento di legittimazione. Mamdani rappresenta questa fase: l’epoca in cui l’impero tenta di sopravvivere non con la forza militare, ma con la seduzione etica.

La sinistra occidentale, privata del proprio radicamento di classe, ha accolto Mamdani come simbolo di una rinascita. In realtà, egli è la conferma di una sinistra – non conflittuale – che ha smarrito la propria funzione storica e accetta di esistere come voce morale dell’ordine, non come forza che lo sovverte. La sua elezione mostra l’adattamento della politica progressista a una fase di governo della sensibilità, dove l’ideologia si traveste da etica e il dominio assume il linguaggio della cura.

Nelle mappe elettorali del New York Times la divisione della città appare come una sezione anatomica del capitalismo urbano. I quartieri popolari – Harlem, Astoria, Bushwick, Bed-Stuy – rappresentano il cuore vivo del lavoro e della precarietà: migranti, afroamericani, lavoratori delle piattaforme, studenti, donne che sostengono intere economie informali. Dall’altra parte, Manhattan alta, il Queens orientale e le aree ortodosse di Brooklyn sono i territori della rendita, del capitale finanziario, della proprietà. Non si tratta di due New York, ma di due livelli della stessa struttura: la città produttiva e la città proprietaria, la città che genera valore e quella che lo estrae.

Mamdani ha conquistato il consenso delle periferie materiali e simboliche, ma lo ha fatto all’interno di un meccanismo politico che neutralizza il conflitto. Egli governa la rappresentazione della protesta, non la sua organizzazione. Il suo successo non segna il ritorno della lotta di classe, ma la sua trasfigurazione in linguaggio civico.

Questa trasformazione affonda le radici in un lungo processo. Dopo il 1945, il potere municipale divenne in tutto l’Occidente un laboratorio di gestione etica del capitale. I governi locali impararono a distribuire sollievo senza toccare i rapporti di produzione, a ridurre l’impatto della miseria senza abolirne le cause. L’urbanistica si convertì in linguaggio di mediazione, l’assistenza sociale divenne forma organizzata della disciplina e la partecipazione civica servì a confermare il consenso. Con il neoliberismo, questa funzione si è consolidata: la città è diventata una macchina di accumulazione per espropriazione, dove ogni bene comune viene integrato nei circuiti del valore.Rosa Luxemburg aveva previsto che la riforma priva di tensione rivoluzionaria si sarebbe trasformata in amministrazione della sconfitta. Mamdani si inserisce in questa genealogia come versione aggiornata del riformismo etico. La sua elezione non è la negazione del potere borghese, ma la sua interiorizzazione compassionevole.

Per comprenderne la portata simbolica, bisogna tornare all’11 settembre 2001. Lì nacque la nuova costruzione ideologica del nemico, che definì il musulmano come minaccia ontologica e giustificò due decenni di politiche securitarie, guerre preventive e sorveglianza globale. Mamdani, musulmano di origine africana, eletto nella città che fu teatro di quell’attacco, rappresenta la riappropriazione simbolica di quel trauma: è la figura che consente all’Occidente di dirsi guarito dall’islamofobia, pur continuando a praticarla sotto altre forme.

Trump aveva e ancora radicalizza l’odio, trasformandolo in programma politico. Mamdani ne rappresenta la sublimazione: l’islam compatibile, l’alterità resa presentabile, la socialdemocrazia spacciata per socialismo, la diversità che non interrompe l’ordine ma lo redime. Il suo successo è la forma che assume l’autocoscienza dell’impero dopo la fase della paura. È il momento in cui la tolleranza diventa la prosecuzione del dominio con altri mezzi.

La campagna elettorale di Mamdani è stata sostenuta da reti di fondazioni, media progressisti e piattaforme digitali che operano pienamente all’interno del sistema economico dominante. La sua proposta politica – trasporti gratuiti, affitti calmierati, assistenza all’infanzia – è stata presentata come un modello di giustizia urbana. Tuttavia, il sistema fiscale di New York non consente di realizzare quelle misure senza dipendere dal debito. Il debito è la forma moderna del dominio: lega il potere municipale ai centri finanziari che ne regolano i bilanci. Ogni politica sociale deve essere tradotta in obbligazioni, acquistate dagli stessi fondi che speculano sull’immobiliare e sulle infrastrutture pubbliche.

David Harvey lo ha espresso con chiarezza: la città è oggi la forma privilegiata dell’accumulazione per espropriazione. Ogni riforma urbana, se non rompe questa logica, finisce per rafforzarla. La giustizia sociale diventa una funzione del credito, la redistribuzione un meccanismo di stabilità sistemica. Mamdani, pur animato da intenti progressisti, si trova vincolato a questa struttura. La sua amministrazione dipende più dal rating finanziario che dalla felicità dei cittadini.

Henri Lefebvre ha insegnato che lo spazio urbano è sempre prodotto sociale, non neutro né innocente. La città è una forma della politica economica e della produzione. In essa si riflette la totalità del modo di produzione capitalistico. Governare New York significa governare la rappresentazione stessa del capitale globale. Mamdani, dunque, non amministra una città, ma una vetrina dell’impero.

L’Occidente, dopo Gaza, ha bisogno di un’immagine che ricomponga la propria coscienza. Mamdani risponde a questa esigenza. La sua figura permette al mondo liberal di mantenere un’identità morale in un’epoca di genocidi trasmessi in diretta. Egli offre una narrazione di riconciliazione, in cui la colpa diventa strumento di autogiustificazione. È la logica del capitalismo morale: trasformare la sofferenza in linguaggio amministrativo, il lutto in progetto di governance.

Il 7 ottobre 2023 ha segnato la fine del monopolio morale dell’Occidente. La resistenza palestinese ha infranto l’illusione di un universalismo etico capace di contenere la violenza imperialista. In quella frattura simbolica nasce il bisogno di un nuovo equilibrio: l’impero deve riarticolare la propria legittimità. Mamdani è parte di questo processo. Egli rappresenta la possibilità di essere antisionisti senza essere rivoluzionari, progressisti senza essere decoloniali.

Il suo discorso parla di inclusione, uguaglianza, solidarietà, ma evita di nominare il nemico: il capitale. In ciò risiede la sua efficacia simbolica e il suo limite politico. La sinistra liberale che lo sostiene non cerca la rottura, ma una forma di pacificazione morale. Si oppone all’ingiustizia senza intaccare le sue cause materiali. È una sinistra che preferisce lenire piuttosto che trasformare e che confonde la cura con il potere.

La sinistra occidentale ha progressivamente sostituito la critica dei rapporti di produzione con la gestione dei sentimenti collettivi. La lotta di classe è stata tradotta in linguaggio terapeutico: si parla di inclusione, di solidarietà, di felicità pubblica, ma non più di espropriazione, di proprietà, di potere. Mamdani si muove in questo linguaggio. La sua figura rappresenta la fase in cui il conflitto non è più organizzato ma elaborato, in cui la politica è ridotta a trattamento del disagio sociale.

Questa trasformazione non è solo un effetto culturale, ma un dispositivo strutturale. L’impero, nel suo stadio morale, ha bisogno di rappresentanti che trasformino la colpa in consenso. Mamdani è uno di questi rappresentanti: traduce la contraddizione dell’Occidente in una narrazione di riconciliazione. Egli permette alla borghesia progressista di sentirsi giusta mentre conserva i propri privilegi. È l’espressione politica di una coscienza che, incapace di cambiare il mondo, vuole almeno sentire di averlo compreso.

Gramsci scriveva che l’egemonia si costruisce nella sfera del consenso, attraverso la direzione culturale e morale della società. La funzione di Mamdani risiede precisamente in questo spazio: organizzare l’immaginario del bene, canalizzare l’indignazione in rappresentazione, non in organizzazione. La sua retorica di equità e giustizia civile serve a prolungare la sopravvivenza del sistema e non certo a minacciarla.

Il suo programma politico, per quanto condivisibile, non tocca i fondamenti materiali del dominio. La redistribuzione, nel capitalismo urbano, è sempre condizionata dall’architettura della rendita. Senza il controllo pubblico della terra, della casa e del credito, ogni misura sociale diventa una compensazione temporanea. La città si emancipa solo entro i limiti che le consente il capitale finanziario e il debito è la catena invisibile che regola questa libertà apparente.

David Harvey ha mostrato come il debito municipale sia la forma attraverso cui la finanza controlla la politica locale. Il welfare diventa un circuito di valorizzazione e la solidarietà un meccanismo di stabilità. Mamdani eredita questa struttura: il suo socialismo è vincolato ai rating, la sua equità dipende dai mercati. Ogni atto di giustizia deve passare per un intermediario finanziario. È una logica che neutralizza la possibilità di trasformazione reale.

Henri Lefebvre sosteneva che la città è il luogo in cui si manifesta la totalità del capitalismo: le infrastrutture, i flussi, le abitudini, la vita quotidiana. Governare lo spazio urbano significa governare la forma della produzione sociale. Per questo il municipalismo progressista, se non rompe con la logica del capitale, finisce per rafforzarla. La giustizia amministrata è la forma più sottile del dominio.

Mamdani agisce dentro questa contraddizione. La sua elezione risponde al bisogno collettivo di un ordine che si presenti come morale. È la forma compiuta del socialismo del debito, in cui la conflittualità viene neutralizzata dentro la gestione morale dell’ordine e la compassione funziona come strumento di regolazione sociale. L’egemonia borghese agisce ormai nella sfera della sensibilità, traducendo la forza in consenso e trasformando l’empatia in un codice disciplinare mentire la sinistra occidentale, priva di un soggetto capace di agire come forza storica, ha rinunciato alla prospettiva del rovesciamento dei rapporti di forza: al posto dell’organizzazione collettiva si è affermata la ricerca del consenso, e la funzione di direzione è stata dissolta nella rappresentazione.

Lenin aveva avvertito che senza una teoria rivoluzionaria non esiste un movimento rivoluzionario. Oggi questa assenza è il tratto distintivo del progressismo globale. Mamdani, con la sua visione etica e la sua retorica dell’empatia, è la figura che consente di mantenere viva l’illusione della sinistra come forza del bene, non come forza del potere. Ma la politica, se non tocca la proprietà, rimane pedagogia.

Il problema non è la sincerità del sindaco di New York, ma la funzione che la sua figura svolge nel ciclo del capitale. Egli rappresenta la neutralizzazione del conflitto, la trasformazione della resistenza in linguaggio morale. È il volto urbano dell’egemonia riformata, che regola la disperazione sociale attraverso la promessa della giustizia amministrata. Eppure, come ogni fase di stabilità apparente, anche questa contiene la propria crisi. La città, nel capitalismo tardo, è un laboratorio della contraddizione. In essa convivono la rendita e la miseria, la finanza e la sopravvivenza. Le lotte per la casa, per la mobilità, per i servizi pubblici sono potenziali focolai di un nuovo movimento materiale. Il potere municipale, se sottratto alla logica del credito, potrebbe tornare a essere spazio di autogoverno.

Lenin, studiando la Comune di Parigi, riconobbe nel potere municipale un possibile terreno per la dittatura del proletariato, ma solo se collegato a un processo rivoluzionario generale. La storia del municipalismo europeo conferma questa lezione: dove l’amministrazione si separa dal conflitto, il capitale si riorganizza. Mamdani, come molti altri sindaci progressisti, si trova esattamente su questo confine.

Il limite non è la persona, ma la forma storica. Finché la città resta dentro la catena del debito, non potrà essere liberata. Finché la sinistra di classe non recupera la capacità di direzione, continuerà a fornire legittimità morale all’impero. Mamdani non è un errore, ma il prodotto di un equilibrio instabile: il capitalismo morale che si rinnova attraverso i suoi critici.

Rosa Luxemburg scrisse che la riforma senza rivoluzione diventa la sua sostituzione. Mamdani incarna questa sostituzione: la moralità come prolungamento del dominio. Egli permette al sistema di presentarsi come autocritico, al potere di vestirsi di compassione. È la stessa funzione che Barack Obama ebbe nel 2008: la riconciliazione dell’impero con la propria coscienza.

L’analogia non è superficiale. Obama rappresentò il superamento morale del razzismo americano, ma ne amministrò le guerre. Mamdani, vent’anni dopo, rappresenta il superamento morale dell’islamofobia, ma la struttura del potere resta identica. Entrambi sono figure della redenzione imperiale: espressioni di una borghesia che trasforma la colpa in capitale simbolico.

Eppure, anche la rappresentazione della redenzione ha un limite. L’impero non può più contenere indefinitamente le contraddizioni che genera. Gaza, la crisi ambientale, la precarietà globale, la frammentazione del lavoro mostrano la fragilità del sistema. Quando la moralità non basta più a reggere il consenso, la politica torna ad apparire nella sua forma originaria: conflitto per il potere.

Ogni volta che il capitale crede di aver convertito tutto in valore, riemerge ciò che non può essere comprato: la vita che resiste, il lavoro che non accetta di essere ridotto a funzione. È in questa materia che si nasconde ancora la possibilità del socialismo. Non nella compassione, ma nella necessità. Non certo nella rappresentazione, ma nella direzione.

La città del futuro sarà il campo di questa nuova battaglia. Le sue infrastrutture, i suoi dati, i suoi corpi, le sue case saranno il terreno di una contesa tra dominio e liberazione. Se la sinistra antagonista saprà ricostruire una teoria del conflitto e una forma nell’organizzazione, potrà restituire alla politica la sua sostanza. In caso contrario, continuerà a produrre figure come Mamdani: oneste, simboliche, ma integrate nel meccanismo che dicono di criticare.

La rivoluzione non è un gesto morale, è una pratica materiale. La sua soglia non si apre nelle istituzioni del capitale, ma nelle fratture che esso stesso genera. Si apre nelle periferie produttive, nei lavori frammentati, nei luoghi dove la vita resiste alla misura del profitto. È lì che la politica può tornare a essere necessità storica e non linguaggio terapeutico. La città, in questa prospettiva, è il campo decisivo del nuovo ciclo della lotta di classe: non soltanto uno spazio governato e normato, ma territorio da riconquistare come mezzo di produzione sociale.

Lenin ricordava che “il potere non si prende, si costruisce”. Oggi costruire il potere significa restituire alla collettività la capacità di organizzarsi fuori dalla logica della finanza e della delega. Il “socialismo urbano” non può limitarsi a distribuire equità: deve trasformare i rapporti di proprietà, espropriare la rendita, sottrarre la riproduzione della vita al dominio del credito. Senza questa rottura, ogni riforma resta un atto di manutenzione del capitale.

Il caso Mamdani è l’occasione per interrogarsi su quale sinistra davvero rivoluzionaria sia possibile nel XXI secolo. Una sinistra che non si limiti a testimoniare il bene, ma che torni a organizzare la forza. Una sinistra capace di pensare la città come officina del contropotere, non come vetrina della coscienza borghese. La trasformazione reale comincia quando la politica abbandona il terreno della redenzione e torna a quello della necessità materiale.

L’Occidente può anche proiettare sul volto di Mamdani il desiderio di assolversi dal proprio passato coloniale. Ma il perdono, nel capitalismo, è solo un modo di rinviare la resa dei conti. Finché la rendita governerà lo spazio e il debito determinerà la vita, ogni sindaco progressista sarà costretto a tradurre la giustizia in linguaggio compatibile. L’alternativa non è tra morale e cinismo, ma tra dominio e rottura.

E l’inizio coincide con la rottura, quando la totalità del valore mostra la propria impotenza a contenere ciò che eccede la misura. È in quel punto che la realtà smette di essere rappresentazione e torna a essere forza. Mamdani, figura morale e voce di un linguaggio inclusivo, non annuncia un mondo nuovo: riflette l’impero che tenta di durare. Ma ogni immagine, quando si incrina, rivela ciò che l’ideologia voleva celare: la materia viva della contraddizione.

E forse sarà in quel punto, quando la morale avrà esaurito la propria funzione di giustificazione e la compassione non potrà più mascherare la violenza della disuguaglianza, che la rivoluzione tornerà a imporsi come presenza materiale. Non come simbolo, ma come movimento della vita che si sottrae alla forma-merce e riapre il tempo della storia.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *