La vittoria di Biden, tra illusioni e realtà

Il 3 novembre, le lezioni USA, hanno decretato la sconfitta dell’ultrareazionario D. Trump, cedendo il passo alla vittoria del liberale conservatore J. Biden.La contrapposizione netta, cavalcata dalla campagna elettorale e la crisi economico/sanitaria che ha travolto gli Usa, ha portato alle urne un enorme numero di votanti rispetto alle precedenti elezioni.È piuttosto ovvio, però, che la crescita dei votanti in più, non vada considerato il segno che indichi una “ripresa di fiducia” dei segmenti socioeconomici più depressi verso la macchina elettorale. L’affluenza alle urne e al voto per posta, ha potuto agevolarsi infatti grazie al fortissimo intervento finanziario dei mass media Usa che mai come in queste elezioni e come mai era accaduto in passato, sono stati deux ex machina e “organi di propaganda” nel fornire visibilità ai contendenti alla Casa Bianca (giusto per cacciare fuori un dato: la spesa elettorale, ha viaggiato, zero in più, zero in meno, sui 14 miliardi di dollari). Le oligarchie si sono così distribuite: a favore di Trump e dei repubblicani, si sono schierati i monopoli dell’energetico (petrolio, gas, carbone), la produzione automobilistica, l’edilizia e soprattutto quella immobiliare e l’agroindustria.Biden e i democratici, ricevono invece le simpatie dell’editoria e del settore delle comunicazioni, spartite dai media, Internet – che riveste un ruolo piuttosto consistente di influenza sui più diversi strati dell’opinione pubblica – il magnati della finanza, le case farmaceutiche, ampi ambiti della green economy e il sostegno consolidato dei sindacati collaborazionisti. L’apparato bellico, industria a questo incluso, si è equamente ripartito i voti per entrambi. I grandi gruppi della borghesia nordamericana hanno supportato Biden e la sua carica di presidente, festeggiato nelle strade, vero ma soprattutto dalla Borsa di New York. I “mercati” hanno punito Trump, ancor prima che per gli innumerevoli insuccessi politici, per aver badato soprattutto alle proprie personali questioni e affari, spesso offuscando gli interessi della propria classe. Tra l’altro, l’evidente gestione criminale della crisi economica e l’altrettanto folle conduzione dell’emergenza pandemica, ha fatto sì che si assottigliasse fortemente quel consenso ottenuto fra i settori più poveri e del ceto medio che pur se per il rotto della cuffia, gli consentì di vincere le elezioni del 2016.Per quanto riguarda la vittoria di Biden è fondamentale che si faccia chiarezza, ammesso non ve ne sia. Gli Usa non cambiano pelle, restano un paese imperialista. Biden ha il volto dei grandi gruppi di impresa come Alphabet, Apple, Amazon, Facebook, etc., ugualmente, Trump, rappresenta le frange più retrive, vicino ad ambienti fascisti e parafascisti e ai monopoli più reazionari.Inoltre: la candidatura alla vicepresidenza di Kamala Harris, non mette, di certo in discussione il sistema. Il fatto che sia una donna, afroamericana, con discendenza asiatica e appartenente a una famiglia di emigranti, non cambia la sostanza: a decidere è l’appartenenza e la coscienza di classe, non le differenze di genere o etniche, come dimostrano i casi di Condoleezza Rice e Hilary Clinton, del generale Powell e di Obama.Quanto al futuro presidente Biden, l’operato espresso prima come senatore e poi, come vice presidente di Obama, è eloquente: è stato un convinto sostenitore di entrambe le invasioni in Iraq e Afghanistan; ancora, ad oggi, appoggia fermamente le politiche criminali di israele; è stato il falco di punta di Obama, nella deportazione di migranti e più di qualsiasi altro presidente (compreso Trump); si è mostrato sempre favorevole alle leggi per l’incarceramento di massa di neri e di altre minoranze oppresse; ha coadiuvato Obama nell’operazione “bail-out” miliardario investimento finalizzato a mettere in salvo i monopoli durante la crisi dei subprime. È piuttosto chiaro che il capitalismo non si smentisca e non voglia farlo. Di certo Biden, sarà in prima linea nell’elargire miliardi di dollari e sostegni fiscali all’oligarchia finanziaria e darle respiro per venir fuori dalla crisi e in politica estera, non smentirà gli interessi che l’imperialismo Usa esige e ugualmente come molti dei suoi predecessori, avrà a cuore nel mantenere più che ottimi rapporti con Israele. Non è escluso dunque, che Biden possa pensare ad un “casus belli” e spingere per altre guerre locali, rendendere la Nato un fortino maggiormente edificato, sviluppare un piano riarmo e nuove direttrici di guerra, per limitare sul piano globale le potenze imperialiste rivali, in particolare Cina e Russia.Non sarà facile di certo, riscattare una leadership globale, così tanto minata da Trump: impegno che potrebbe risultare faticoso, sia sul piano economico – soprattutto a causa delle conseguenze della crisi capitalistica e della pandemia – sia sul versante politico e diplomatico, dal momento che le altre potenze imperialiste non attendono più supine la volontà indiscutibile e unilaterale degli Usa. Parole chiave come “multilateralismo e cooperazione”, traducono l’intenzione di Germania, Francia (e anche del Giappone) di liberarsi dal predominio Usa, inasprendo le contraddizioni del campo imperialista. Dunque: tra promesse post campagna elettorale e le “riformulazioni” politiche dei propri protagonisti, gli Usa si definiscono e si dichiarano di fatto, essere una potenza aggressiva e guerrafondaia, non disposta a cedere ma fortemente intenzionata a difendere e a qualsiasi costo, un’egemonia mondiale che pur sul viale del tramonto non per questo si riflette opaca o meno pericolosa rispetto al passato.

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