Al mutare della marea

La giornata di lotta del 6 marzo, a Prato, non appartiene soltanto ai lavoratori della Texprint e al ristretto cerchio militante che si è schierato in loro appoggio: in concreto pone dei problemi di peso, a partire da come sviluppare il concetto di “lotta esemplare” come quello di “radicalità del caso limite”, laddove in lotta contro condizioni di sfruttamento ottocentesche ma correnti, sono scesi solo una parte di lavoratori e, in un quadro di composizione multietnica, solo di un gruppo immigrato.La Texprint è una fabbrica dove la “normale giornata lavorativa” è di dodici [12], ore giornaliere per sette [7] giorni la settimana [totale 84 ore in sette giorni] mentre in Italia il massimo delle ore lavorative – compresi gli straordinari – è fissato [dal 2003] a quarantotto [48] ore ogni sette giorni, con un limite di 13 ore giornaliere comunque compensate da recuperi.In Italia la giornata di otto ore è stata stabilita “legalmente” nel 1923, quasi un secolo fa, con tutte le ambiguità che le leggi di riconoscimento delle conquiste sociali sottendono. Per dire che le “garanzie legali” valgono se c’è una forza del lavoro che le sostengono, per il tempo che questa forza supera quella datoriale, e che, in tutti i casi, stabilita la regola, la prova di forza si sposta sulle norme attuative, poi sull’applicazione, poi sull’esigibilità… fino al momento in cui i rapporti di forza cambiano e si può allegramente abolire la norma legale.In nome dell’economia, della libertà di impresa o di qualsiasi diavoleria venga proposta come “naturale” al momento. Così qualcosa che si collega ai romanzi di Dickens, ai cotonifici di Manchester, alle foto di Salgado, può tranquillamente accadere oggi in una città dell’Occidente opulento [per quanto “in crisi”].Può succedere a Prato per una serie di ragioni che si riducano ad una: se i lavoratori hanno pochi diritti concreti, i lavoratori immigrati ne hanno nessuno. E che siano i magazzini di Zara, il Panificio Toscano, come oggi alla Texprint, i lavoratori in questione sono immigrati.Sarebbe bene, però, che questa realtà, fatta di ricatto aperto, [queste condizioni esistono perchè si incontrano la rapacità con il bisogno – l’essenza vera del mercato -, il certificato di lavoro per il permesso di soggiorno] venisse vista come qualcosa di diverso dal “caso esemplare” che muove la solidarietà verso l’oppresso [con l’O maiuscola], che il buon samaritano deve salvare per potersi dire Samaritano.Più concretamente il caso è vicino alle parole di Oskar Shindler [ma i polacchi mi costano più degli ebrei: perché dovrei prendere dei polacchi?]: se funziona coi pakistani basta metterlo nel prossimo Jobs Act. In questo momento mai è stato così vero che le condizioni di tutti si difendono su quelle dell’ultimo della lista: che non esiste “io speriamo che me la cavo” perchè non si è polacchi a lungo quando sul mercato del lavoro c’è tanti ebrei. Che una lotta di fabbrica non è esemplare ma semplicemente per la vita: se vuoi vivere devi smettere di essere un salariato sfruttabile a piacere.Parallela a questa considerazione vi è l’altra: una lotta come questa esprime la radicalità della sopravvivenza.Anche qui dovremmo cercare di andare oltre l’evidente: questa lotta fatta di notti all’addiaccio, di corpi stesi davanti ai camion, di resistenza agli interventi polizieschi per “garantire la libertà di movimento delle merci”, assume forme “antiche” come la preminenza della fisicità del corpo per quanto è “antico” il lavorare dodici ore e non poter esigere in nessun luogo il proprio diritto, mentre la controparte padronale strepita di essere aggredita nei suoi diritti dai picchetti.La radicalità del fatto sta nell’uscire dalla falsità della mediazione: il diritto alla vita [dei lavoratori] si contrappone senza intermediari al diritto alla rapina [padronale]. Il sindacalismo torna ad essere pura auto organizzazione dei lavoratori, senza apparati “specialisti” ma con la messa in comune dei saperi, con la forza – tutta riproducibile perché senza particolari addestramenti – di chi sceglie di mettersi in gioco e condividere i proprio saperi.Una radicalità che paga, da subito, in termini di abbattimento della paura, della convinzione che si è sconfitti in partenza, che il padrone ha il coltello dalla parte del manico.Una radicalità che si libera delle false definizione affibbiatali dall’avversario [“i duri”, “gli estremisti”, “i comportamenti selvaggi” – tradotto “che non sono addomesticati” “non sanno stare al loro posto”] per diventare semplicemente le gambe, le braccia, le bocche di un fatto semplice:Basta sfruttamento, basta ricatti: otto ore sono anche troppe!Con i lavoratori della Texprint che conquistando questi obiettivi, QUANDO li conquisteranno, impiegheranno certamente una parte del tempo che la lotta ha liberato per sostenere le lotta delle prossime Texprintperché la libertà, la dignità e la consapevolezza devono diventare la vera pandemia.

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