PASSATO E PRESENTE. LENIN E NOI.

Il circolo Lenin è un collettivo editoriale che si è costituito come spazio di discussione teorica. È uno spazio aperto nel senso che ci auguriamo di ricevere contribuiti e riflessioni da parte di coloro interessati a sviluppare una teoria critica del presente. Chiunque sia interessato a questa ipotesi può inviare i suoi contributi alla mail associazionemarianoferreyra@gmail.com. Ringraziamo il collettivo politico 13 rosso che ha deciso di ospitarci sul suo blog.

“L’idea organizzativa di Lenin presuppone il dato di fatto della rivoluzione, l’attualità della rivoluzione.”(G., Lukács, Lenin. Teoria e prassi nella personalità di un rivoluzionario)Vorremmo iniziare il testo dicendo: cominciamo con il dire Lenin ma sarebbe per lo meno fuori luogo poiché, ciò che in un’altra epoca sarebbe stato pressoché scontato oggi, a essere ottimisti, necessita almeno di una qualche argomentazione. Lenin, in linea di massima, è stato archiviato nel faldone della storia novecentesca oppure, tra i mondi delle residualità comuniste, trattato come una icona imbalsamata da venerare e onorare come una sorte di Padre Pio in salsa laica. Tutti, in qualche modo sembrano dire: Lenin è morto. Ciò che, al contrario, vorremmo provare ad argomentare nelle pagine seguenti è l’attualità di Lenin e della necessità di ri- tradurlo nel presente. Un’operazione che ha ben poco di liturgico, a questo pensano già abbondantemente le diverse sette comuniste ma, piuttosto, un fare eretico e del tutto estraneo e ostile a qualunque forma di ortodossia. Sulla scia di ciò cercheremo di leggere e tradurre Lenin e il suo metodo nel presente. Lo faremo focalizzando lo sguardo a partire dagli scritti coevi al 1905 poiché, a nostro giudizio, è proprio intorno a quegli eventi che è possibile cogliere l’attualità di Lenin nel presente. Partiamo, pertanto, riportando a la mente La caduta di Port Arthur . Difficile non scorgere nelle argomentazioni di quel testo, dove la centralità della dimensione internazionale della politica, qualcosa che ci riguarda da vicino. A ben vedere, infatti, le annotazioni di Lenin sono in grado, ovviamente con tutte le tare del caso, di raccontare qualcosa di non secondario su quanto si sta delineando nel mondo contemporaneo. Lì Lenin è il solo a cogliere come la guerra russo – giapponese apra a un nuovo capitolo della storia del mondo che sovverte per intero tutte le cornici concettuali – dopo la guerra russo – giapponese nulla sarà come prima – il post 1905, in effetti, non farà altro che dimostrare come la politica, o almeno quella che conta sul serio, sia ormai diventata unicamente quella in grado di rapportarsi al sistema – mondo che l’imperialismo ha determinato. La centralità della dimensione internazionale è la conseguenza dell’affermarsi della nuova fase imperialista che rende l’ambito politico ed economico nazionale via via sempre più subordinato, e per così dire inglobato, in quello internazionale . I due conflitti interimperialistici del ‘900 ne rappresentano qualcosa di più che una semplice constatazione, riassumiamoli brevemente. Il primo pone definitivamente fine alle politiche europee incentrate intorno ai perimetri dello Stato/Nazione, segnando in tal modo il declino dell’Europa come centro della politica mondiale e, al contempo, facendo emergere nuovi e agguerriti imperialismi che pongono una pietra tombale sui precedenti equilibri di potenza. La Prima guerra mondiale segna l’emergere come forze imperialiste in ascesa degli Stati Uniti e del Giappone da un lato, la vittoria e il consolidarsi del primo stato socialista, che tutte le consorterie imperialiste internazionali hanno cercato di annientare, dall’altro. Questi fatti rappresentano un mutamento di paradigma che non investe semplicemente l’ambito della politica ma incide a trecentosessanta gradi sugli “stili di vita” e le intere retoriche culturali del mondo. Non un semplice passaggio di consegne ma una vera e propria frattura storica. A fronteggiarsi, al termine del Primo conflitto mondiale, saranno soprattutto la potenza imperialista statunitense e la forza proletaria sovietica, due realtà che incarnano due visioni del mondo ideologicamente avverse . Lo spettro comunista che con Marx si aggirava per l’Europa, con Lenin si è mutuato in guerra civile internazionale ed esattamente questa sarà la cifra che segnerà tutto il secolo breve. In mezzo a tutto ciò i vecchi potentati europei non potranno far altro che arrancare giocando una partita esclusivamente di rimessa al solo scopo di frenare il più a lungo possibile la loro definitiva fuoriuscita dagli ambiti della potenza. Il 1905, di tutto ciò, ne era stata l’avvisaglia pienamente percepita da Lenin. Ora, ed è l’aspetto centrale dei risultati del Primo conflitto mondiale, quella politica declinata sull’internazionale, che Marx ed Engels avevano posto come snodo teorico della loro attività politica e organizzativa in veste anticipatoria, diventa realtà storica concreta . Il secondo, portando sino alle estreme conseguenze quanto il 1905 aveva fatto albeggiare, mostra come il capitale finanziario transnazionale sia diventato egemone e dominante su scala mondiale e in che misura il cuore politico ed economico del sistema – mondo abbia definitivamente abbandonato il Vecchio Continente. Il fatto che i prodromi della Seconda guerra mondiale vadano ricercati nel crack finanziario newyorkese del 1929 è qualcosa che non ha bisogno di essere argomentato . Gli intrecci finanziari e industriali transnazionali, che Lenin coglie e considera già in atto e centrali nella guerra russo – giapponese, negli anni Trenta del Novecento dominano il mondo. L’imperialismo, nella sua evoluzione, travolge tutta la forma politica incentrata sugli stati nazionali trasformando questi in anelli di una catena che rappresenta, al contempo, tanto la forza quanto la debolezza di questa nuova fase capitalista. La rottura di uno o più di questi anelli, infatti, non avrà ricadute semplicemente locali ma investirà per intero il sistema – mondo. Anche in questo caso le scarne paginette leniniane dedicate alla caduta della fortezza hanno anticipato la configurazione di un’intera epoca storica. Mentre la maggior parte degli osservatori politici, per non dire tutti, focalizzano lo sguardo al massimo sulle contraddizioni che la guerra russo – giapponese implica per l’autocrazia, limitando quindi il tutto dentro una dimensione locale, determinata per di più da una condizione di arretratezza, Lenin ne coglie il significato immediatamente internazionale, moderno e anticipatorio che quell’evento possiede e le possibilità che schiude per l’intero proletariato internazionale. Dal 1905 non si torna indietro e questo vale non solo per la Russia ma per tutta la catena imperialista. Dentro questo nuovo orizzonte, il canto del cigno dell’autocrazia è, a ben vedere, un elemento secondario. La sconfitta della Russia mostra la nuova dimensione assunta dal conflitto politico – militare e le condizioni necessarie per potervi stare dentro. Questa condizione è il dato realmente importante perché traccerà la via di tutti i conflitti futuri. La fine dell’autocrazia, alla scala della storia, è un fatto di secondaria importanza mentre, a divenire essenziale, è il modello sociale, economico, finanziario e militare che la guerra russo – giapponese tiene a battesimo. Il 1905 è letto giustamente da Lenin come una rottura storica, non come un evento nella catena lineare e progressiva del divenire storico. Una rottura che si consuma nella Russia zarista la quale da tempo, però, è anche un Paese industriale e imperialista. Un Paese, quindi, non banalmente arretrato ma dove il capitalismo, a riprova del suo camaleontismo, si è ben coniugato con le vecchie forme economiche e sociali incentrate principalmente su un’agricoltura latifondista: il che conferma come non esista il modello ma i modelli capitalistici, la cui struttura economica è di volta in volta capace di plasmarsi entro un contesto storicamente determinato e di convivere con ogni forma politica. Lenin lo comprende con estrema lucidità, in aperta contrapposizione con tutte le derive opportuniste e riformiste del movimento operaio le quali, al contrario, coniugavano sviluppo capitalistico e democrazia parlamentare. In ciò non vi è semplicemente un’analisi diversa ma, dentro la diversità di quell’analisi, a evidenziarsi e a farsi determinante è una prospettiva teorica e metodologica avversa e inconciliabile. Da un lato, la prospettiva evoluzionista propria dei cultori della teoria della civilizzazione, i quali considerano il divenire storico un lento ma costante cammino all’insegna di qualcosa chiamato progresso e in nome di una umanità astratta; dall’altro la dialettica marxiana, la quale coglie il divenire come il frutto del conflitto e degli interessi di classe materiali in esso racchiusi. Questo divenire, pertanto, non può che essere attraversato da rotture determinate da relazioni belligeranti. Il “determinismo” marxiano, allora, si ferma esattamente alla cornice generale di un determinato modello di produzione. Se lavoro salariato e plusvalore sono le forme obiettivamente universali del modo di produzione capitalista, in nessun caso a queste corrisponde una qualche forma politica ideale e/o obbligata. Il capitalismo può fiorire e svilupparsi tanto dentro la repubblica parlamentare, quanto nella commistione tra autocrazia e borghesia cadetta, così come mostra di trovarsi a suo agio dentro il prussianesimo. Il capitalismo certamente distrugge i vincoli feudali ma questi, come Lenin ha bene argomentato a proposito della Russia, possono essere sciolti anche, o almeno in gran parte, dall’autocrazia stessa. L’autocrazia può rimodellarsi sul capitalismo e il capitalismo può ampiamente convivere con l’autocrazia. Capitalismo e dispotismo possono pertanto tranquillamente coabitare. Ciò che Lenin nega è esattamente il processo di civilizzazione che sarebbe, secondo il riformismo socialdemocratico, ontologicamente inerente al capitalismo. Vale la pena di evidenziare, prima di tornare al ragionamento sul 1905, come le differenze tra Lenin e i socialdemocratici europei comportino ricadute essenziali non solo rispetto all’analisi del “caso Russia”, ma anche riguardo alla visione strategica complessiva del movimento operaio. In primis rispetto alla “questione coloniale”. Mentre i fautori del processo di civilizzazione, coerentemente con questo assioma, finiscono nel vedere nel colonialismo uno degli effetti benefici della civilizzazione, Lenin ne coglie il tratto dispotico e razzista, un tratto che, per quanto paradossale possa apparire, è l’altra faccia di ciò che, in Europa, è chiamata civiltà . L’asiatico Lenin osserva il colonialismo facendo suo il punto di vista dei popoli colonizzati, mentre i socialdemocratici europei assumono per intero la prospettiva “civilizzatrice” delle proprie borghesie. La “questione Russia” racconta qualcosa che ha a che fare con punti d’osservazione non semplicemente diversi, bensì nemici in quanto rispecchiano esattamente la relazione oggettivamente belligerante tra le classi. Detto ciò, proseguiamo.Nel 1905 sono condensati i tratti della fase imperialista, questa l’argomentazione originale e decisiva di Lenin. L’imperialismo è la forma storica concreta attraverso cui si realizza quanto Marx aveva prefigurato ne Il capitale: l’affermarsi del mercato mondiale e della guerra quale strumento attraverso cui il mercato mondiale si costituisce. Imperialismo e guerra sono il binomio inscindibile, costitutivo e costituente al contempo, entro cui è ascritto il nuovo sistema – mondo. Questo binomio non può essere scisso se non spezzando il sistema imperialista sin nelle sue radici. L’imperialismo è guerra su scala mondiale. Da qui l’obiettiva necessità, continuamente argomentata da Lenin, di assumere costantemente una visione globale della politica. Mentre i più non riescono ad alzare lo sguardo oltre l’orticello del proprio perimetro nazionale, Lenin sposta lo sguardo sul mondo, convinto che solo una visione della politica internazionale sia in grado di articolare e definire concretamente anche la dimensione locale della politica. Qualunque politica nazionale, e questo è vero sia per la borghesia che per il proletariato, non può darsi in maniera indipendente da quanto si produce sullo scenario internazionale. I fatti del 1905 obbligano, da questo momento in poi, a leggere il rapporto rivoluzione/ controrivoluzione tenendo costantemente a mente l’insieme di conflitti e contraddizioni del sistema – mondo. Limitata a ciò l‘attenzione per la scena politica internazionale potrebbe apparire come il semplice adeguarsi, e il subordinarsi, della politica comunista alle logiche e retoriche proprie di quel sapere che prenderà il nome di geopolitica ma, in realtà, non di questo si tratta. Se così fosse si tratterebbe di spostare su un piano diverso il livello dell’analisi, ovvero invece che focalizzare lo sguardo sulla politica dei governi nazionali considerare in prima istanza l‘agire dei blocchi imperialisti. Ma il passaggio alla dimensione internazionale determinato dall’imperialismo non è un semplice passaggio aritmetico. Come ha ben argomentato Hannah Arendt , l’imperialismo è una progressione geometrica che trasforma alla radice non solo i perimetri della politica ma sovverte per intero la stessa struttura della formazione economica e sociale dei Paesi imperialisti . Questa è l’altra non secondaria novità storica che l’intuizione leniniana coglie. Il sistema – mondo imperialista modifica da un lato la composizione di classe dentro i Paesi imperialisti , dall’altro include dentro il campo della rivoluzione nuovi soggetti storici. Ciò che l’imperialismo ridefinisce sono nuove linee di amicizia e inimicizia, dentro lo stesso movimento operaio dei Paesi imperialisti, come, a breve giro, il 1914 dimostrerà. Se, sino a quel momento, riformisti, revisionisti e rivoluzionari avevano potuto in qualche modo convivere all’interno della medesima cornice organizzativa e limitare le corpose differenze all’ambito della teoria, adesso, nel momento in cui l’imperialismo diventa il modello politico del modo di produzione capitalista, la teoria si riveste di carne e sangue. Ora le teorie politiche mostrano di essere forze materiali e le pallottole di carta si trasformano repentinamente, fuor di metafora, in nastri di mitragliatrici. Quelle differenze che sembravano semplici sofisticherie intellettuali mostrano quanto, in realtà, non facessero altro che anticipare postazioni di classe materialmente determinate e tra loro assolutamente non compatibili . L’imperialismo obbliga alla scissione: Lenin sarà proprio l’uomo della e delle scissioni, radicalizzando le linee dell’amicizia e dell’inimicizia di classe. Il movimento operaio dei Paesi imperialisti, nella sua variabile revisionista e riformista, delineerà il proprio campo dell’amicizia includendovi la propria borghesia imperialista mentre, il movimento operaio materialmente estraneo a questo patto, ridefinirà il suo, affiancandosi internazionalmente con tutte le forze ostili agli interessi imperialisti. Lenin, che attraverso un uso non scolastico e dogmatico della dialettica materialista ha compreso appieno il senso della rottura storica in atto, è il principale artefice di questa operazione. Il settarismo operaio che Lenin coltiva dentro gli ambiti imperialisti consente, qui sta tutta la ricchezza dell’operazione, di pervenire a un’altra idea di popolo. Il settarismo di Lenin non ha nulla a che vedere con la definizione della propria parte in un ambito prossimo alla setta talmudica bensì corrisponde all’individuazione di un tipo diverso di unità. Lenin rompe al fine di ricomporre – come momento della sintesi – una unitarietà qualitativamente diversa. Rottura, scissione, ricomposizione, in questo consiste l’agire politico leniniano, calibrato in funzione dei processi materiali che definiscono le classi e la loro postazione nel mondo per questo, per quanto paradossale possa sembrare, il settarismo leniniano è quanto di più unificante vi sia. L’unità così raggiunta non avrà nulla di formale e fittizio, come nel caso del movimento operaio della Seconda internazionale, ma mostrerà di essere un’unità reale, “concreta”, decisionista e combattente. La “linea di condotta” dei bolscevichi nel corso del 1905 rappresenterà la prima concreta esperienza di questa politica settaria. Contro il menscevismo e il neopopulismo, in quel frangente, Lenin “costruisce” l’unità dei subalterni in guerra con tutte le classi controrivoluzionarie. L’unità di proletariato industriale, agricolo, contadini poveri, contadini semi poveri e nazionalità oppresse dalla dominazione imperiale russa, ovvero il popolo oggettivamente ostile tanto all’autocrazia quanto alla borghesia costituzionalista e imperialista, coltivata dai bolscevichi non è altro che l’anticipazione di quanto, pochi anni dopo, si porrà all’ordine del giorno con la generalizzazione della guerra imperialista. Si comprende così il significato dell’egemonia per Lenin, un’indicazione strategica che nulla ha a che vedere con quanto, anni dopo, sarà teorizzato da Gramsci. L’egemonia della quale parla Lenin non ha nulla di “culturale”, non ha nulla di pedagogico o educazionista. Si tratta, come il testo La guerra partigiana o le Giornate di sangue mostrano senza ambiguità, dell’egemonia della frazione più avanzata della classe operaia e del proletariato che, attraverso la sua “linea di condotta”, impone nella prassi i tempi e i ritmi dello scontro di classe. L’egemonia di Lenin è l’egemonia del punto più alto dello scontro di classe; è il punto di vista che la soggettività proletaria impone dentro i tempi storici. É questa tendenza che il partito dell’insurrezione deve saper cogliere, fare propria e rendere egemone dentro la classe. Un agire che per forza di cose, comporta forzature, spinte e accelerazioni. Non è pensabile che, improvvisamente, tutta la classe, composta di molteplici particolari, si allinei sulle posizioni più radicali e rivoluzionarie ma è realistico, se le tendenze radicali della minoranza di classe colgono il tempo storico, generalizzare e imporre quelle posizioni radicali all’intero corpo proletario e subalterno. Il problema è la saldezza che quella frazione di classe sarà in grado di mostrare, la sua irriducibilità, la sua determinazione e non per ultima la sua audacia. Sono questi gli elementi che costituiscono l’idea di egemonia leniniana. Questo è ciò che mette in campo Lenin dentro il 1905. La guerra civile rivoluzionaria che si oppone alla guerra imperialista non farà altro che internazionalizzare, ampliare e amplificare quanto sperimentato dentro il 1905. Non è, tuttavia, possibile comprendere la “linea di condotta” della frazione leniniana se la rivoluzione del 1905 viene letta senza tenere presente tutto ciò che la precede: in particolare l’instancabile e ostinata battaglia di tendenza condotta da Lenin a partire dalla formazione dei primi circoli socialdemocratici. Infatti, non è possibile affrontare praticamente la rottura se non la si è già prefigurata teoricamente. Non si può stare dentro l’insurrezione se questa non è stata l’orizzonte prefigurato e perseguito. Non si può approdare alla “concretezza”, a cui la rottura storica obbliga, se non si è coltivata l’astrazione entro la quale la “concretezza” è colta, al contempo, come possibilità e necessità. Accade così che inevitabilmente, dentro le rotture storiche, tutti i “concreti” di ieri si facciano improvvisamente “astratti”, mentre gli “astratti” diventano estremamente “concreti”. Mentre la natura imperialista della guerra, con tutte le novità che apporta, insieme all’ esplosione della soggettività di classe spiazzano praticamente tutti, Lenin e la sua corrente iniziano a raccogliere i frutti di quell’instancabile lavorio sottile, certosino e cospirativo al contempo, perseguito negli anni precedenti. Essendo l’unico a mostrarsi in grado di stare sul filo del tempo, Lenin ci consegna una teoria delle rotture storiche che non può essere ignorata. Alla luce di ciò le intuizioni leniniane del 1905 rimangono un’indicazione preziosa anche per il presente.

Futuro anteriore

L’epoca che ci troviamo a vivere ha una significativa affinità con l’epoca in cui Lenin elabora la sua teoria politica: infatti quanto accaduto dopo il 1989 ha rappresentato una frattura epocale tanto radicale quanto lo era stata a suo tempo quella condensata negli eventi del 1905. Da anni siamo entrati in quella che è possibile definire fase imperialista globale . Questa possiede caratteristiche radicalmente differenti rispetto alla fase imperialista che l’ha preceduta; tanto che, oggi, degli assetti politici determinatisi nel Secondo dopoguerra non rimane traccia. Lo scenario politico internazionale è nuovamente scosso dal conflitto interimperialista e la guerra è una realtà che coinvolge ormai centinaia di milioni di persone, mentre imperialismi vecchi e nuovi lottano mortalmente per ridefinire gerarchie e ambiti di dominio e influenze . Si tratta di temi e aspetti in qualche modo noti, rispetto ai quali, in questo contesto, non è possibile soffermarsi. Ciò su cui, invece, sembra il caso di focalizzare l’attenzione sono le ricadute dell’epoca dell’imperialismo globale sulla classe. In questo nuovo orizzonte sembra sensato provare a riformulare il settarismo leniniano al fine di ridefinire un’unità concreta e materiale delle masse irriducibilmente avverse alle logiche e alle retoriche proprie dell’imperialismo globale. L’ipotesi del recupero del settarismo leniniano guarda alla necessità della riformulazione di un internazionalismo dei subalterni in grado di rovesciare la crisi dell’imperialismo in progetto comunista. Un progetto che non sembra sensato pensare né attraverso un neoriformismo finalizzato a rimettere in piedi una sorta di “patto socialdemocratico” in salsa postmoderna, ma neppure attraverso ipotesi neosovraniste e il vagheggiamento di un neopopulismo di sinistra . Un nuovo “patto socialdemocratico” è del tutto anacronistico essendo definitivamente tramontati quegli equilibri politici scaturiti dal Secondo conflitto mondiale che lo hanno reso possibile in Europa ; allo stesso modo la realtà dello Stato/Nazione e della sua popolazione, che sono i presupposti irrinunciabili per l’esercizio della sovranità nazionale, sono storicamente morti . Nessun artificio può essere in grado, e possiamo aggiungere per fortuna, di resuscitarlo. Alla scala della storia, pur con tutti i distingui del caso, coltivare una simile opzione significa reiterare l’errore degli ultimi populisti russi i quali, di fronte all’affermarsi dei processi di modernizzazione capitalistica, coltivavano il sogno di bloccare e ancorare la Russia al mondo di ieri. Come dovrebbe essere noto il dibattito sullo sviluppo del capitalismo in Russia è stato uno dei temi centrali della teoria politica a cavallo tra l’800 e il ‘900 non solo tra l’intellettualità russa. Ricordarne nuovamente le coordinate si mostra particolarmente utile al fine della nostra esposizione poiché di fronte alle rotture storiche contemporanee sembrano, per quanto su scale diverse, reiterarsi logiche e retoriche simili. In quel contesto si andarono a cristallizzare sostanzialmente due posizioni. Da un lato tutto il mondo populista profondamente anticapitalista e romanticamente catturato dalle suggestioni sul “mondo di ieri”, dall’altro tutta l’intellettualità progressista che coglieva nello sviluppo del capitalismo l’avvento della modernità e, con questa, il punto d’approdo finale della storia. A ben vedere le retoriche e le analisi prodotte sull’era globale sono meno innovative di quanto, a primo avviso, possano sembrare. È proprio della borghesia, infatti, considerare il proprio mondo come definitivo e insuperabile. Niente di nuovo sotto al sole. L’impossibilità per la teoria politica e filosofica della borghesia di cogliere la contraddizione è dovuta all’espulsione della dialettica dai propri orizzonti il che la condanna a un empirismo cieco il quale assolutizza e rende eterno il prosaico dato di fatto . Da tempo, ormai, la borghesia non è più in grado di sviluppare una teoria politica che vada oltre il presente. Un limite e una debolezza dalle quali non sembra essere in grado di emanciparsi. Tornando al dibattito sullo sviluppo del capitalismo in Russia, al suo interno non sembravano esservi alternative. Sappiamo però che, di fronte a queste apparenti strettoie, si concretizzò una terza lettura di quanto stava andando storicamente in scena. Questa lettura fu data e offerta da Lenin il quale, invece di farsi irretire dagli aut – aut apparentemente obbligati, si mosse in altra direzione. Non si oppose romanticamente e in maniera astorica all’affermazione del capitalismo ma, di quella forma storica che si andava affermando, ne colse appieno le contraddizioni. Dentro l’inarrestabile affermarsi del modo di produzione capitalista Lenin assume il punto di vista di quelle masse operaie e contadine, ossia di quel popolo reale sedimentato materialmente dal capitalismo che, in virtù della sua postazione oggettiva, può essere il solo e reale nemico del capitalismo e della borghesia. Lenin comprende che non vi è alcuna realistica via di fuga dal capitalismo, perché non si può evadere dal proprio tempo storico; per questo è necessario imparare a starvi dentro e lì, a partire dalle condizioni storicamente determinate, organizzare il modo in cui esservi contro. In poche parole, si può essere realmente contro soltanto se si è in grado di stare interamente dentro ai processi storici. Si può essere contro solo se si è in grado di assumere la contraddizione. In queste considerazioni leniniane è contenuto il nocciolo della dialettica marxiana, il seme del programma comunista del partito dell’insurrezione. Per il partito dell’insurrezione – va sempre tenuto a mente come orizzonte insurrezionale e attualità della rivoluzione albeggino costantemente in Lenin – stare dentro al proprio tempo significa avere piena coscienza dei processi storici in atto e, al contempo, legarsi e organizzare tutte quelle forze che sintetizzano al meglio la contraddizione della nuova era. Andando al sodo, si può dire che la teoria politica di Lenin si distingue perché in grado di cogliere le trasformazioni in atto e le contraddizioni reali che queste comportano, focalizzando l’attenzione su quella classe che, in quanto prodotto di questi processi, ne incarna la contraddizione principale. Per rompere la strettoia nella quale sembrava obbligato il dibattito sullo sviluppo del capitalismo in Russia, Lenin volge lo sguardo verso la contraddizione interna a quello sviluppo. L’organizzazione di quella contraddizione sarà il solo e unico modo per avere ragione tanto dei nostalgici, quanto dei modernisti. Centrale, pertanto, diventa focalizzare e comprendere gli attori sociali, al contempo prodotti e protagonisti, della rottura. L’analisi, quindi, non può che focalizzarsi intorno alla composizione di classe. Mentre tanto i populisti quanto i modernisti si appellano a categorie astratte, astoriche e soprattutto generiche, quali tradizione e/o progresso, Lenin è interessato alla carne e al sangue della società. La sua analisi, in una costante dialettica tra astratto e concreto, individua gli attori sociali reali destinati a giocarsi concretamente la partita storica. La lotta di queste classi, e solo questa, sarà in grado di dire dove andrà la Russia. Per questo i compiti che spettano al partito dell’insurrezione si mostrano giganteschi. Il capitalismo ha mandato in frantumi tutta la vecchia struttura economica e sociale, solo partendo da questa constatazione è possibile ricostituire le linee dell’amicizia e dell’inimicizia. Questa “linea di condotta” non è forse sorprendentemente attuale oggi? Di fronte agli esegeti del modernismo capaci solo di cantare le lodi dell’imperialismo globale, senza scorgerne le contraddizioni oggettive e strutturali, o ai neo sovranisti fautori di un irrealistico ritorno al passato, mitizzato per di più come età dell’oro, esiste una terza via che consiste nel cercare dove si collochi la contraddizione reale e quali siano gli attori sociali che la incarnino. Seguendo il metodo tracciato da Lenin sembra possibile uscire dalle forche caudine del globalismo e del sovranismo. Ciò che occorre definire, su base internazionale, è quale sia il nuovo popolo storicamente determinato. Perché è esattamente lì che si cristallizza, oggi, la contraddizione reale dell’imperialismo globale. Un passaggio sul quale è bene soffermarsi. Le retoriche proprie dei globalismi , anche di sinistra e sedicenti antagonisti, facilmente ascrivibili all’ordine discorsivo proprio dell’imperialismo, meritano ben poca attenzione anche perché l’irrompere della crisi sistemica del capitalismo ne ha messo fortemente in crisi il paradigma . Invece, l’ambito composito del neo sovranismo merita di essere osservato, discusso e criticato con particolare interesse perché, per l’ingenuità e il semplicismo che si porta appresso, è in grado di attrarre anche quote di classe e frazioni politiche sinceramente anticapitalistiche producendo effetti decisamente negativi. Non diversamente dagli ultimi populisti russi i neo sovranisti attuali osservano il mondo con le lenti del passato, immaginando, fino a farne mito, una realtà storica con le relative classi sociali, ormai inesistente o in via di estinzione. In questa operazione, e qua le analogie con gli ultimi populisti russi si fanno persino imbarazzanti, il “mondo di ieri” – identificato con l’epoca del trionfo del Welfare State in Europa occidentale – viene ricostruito entro una cornice idilliaca dimenticando come quella stagione sia stata, e in particolare nel nostro Paese, un’epoca tutt’altro che idilliaca e pacificata . Difficile, infatti, pensare gli anni Sessanta e Settanta del ‘900 italiano come un periodo storico sostanzialmente armonioso e privo di conflitto politico. Anche una lettura superficiale di quel contesto ci restituisce uno scenario di ben altro tipo. Dall’insorgenza dei teddy boy genovesi del luglio ’60, passando per i teppisti di Piazza Statuto, ricordando gli operai non sindacalizzati di Corso Traiano, i fazzoletti rossi di Mirafiori , le giornate insurrezionali del ’77, la pratica armata che faceva da sfondo all’irrompere non secondario dell’illegalità e della violenza di massa sino alle operazioni Dozier e Rovigo che segnano l’epifania dell’ipotesi rivoluzionaria, neppure il più sfacciato dei revisionismi storici può restituire quella storia in versione edulcorata e pacifica . La lotta di classe, la soggettività operaia e proletaria, la loro organizzazione in forza politica e militare hanno disegnato gli equilibri di potere del secolo scorso. In Italia, in particolare, questo è stato lo scenario politico dominante a partire dagli anni Sessanta del secolo breve. La forza politica operaia e la sua articolazione armata hanno obbligato la borghesia imperialista di questo Paese a concedere tanto, in termini di diritti politici e sociali, alle masse subalterne indigene. Nessun potere statuale sovrano ma la lotta di classe contro quello esercitato dalla borghesia ha definito i perimetri dello Stato sociale. Solo l’attualità della rivoluzione ha fatto sì che la borghesia imperialista si piegasse all’elargizione di “diritti” nel nostro ambito nazionale. Identificare il Welfare State con l’esercizio della “sovranità nazionale” o addirittura considerare il primo come il presupposto del secondo, è qualcosa che non trova alcun riscontro storico. Si tratta di una narrazione frutto, per di più, di un sostanziale malinteso. Si sovrappone al modello di Welfare State quell’interesse del potere politico per la popolazione, la cui genealogia può farsi risalire alla messa in forma dello “stato di polizia”, che non ha nulla a che vedere con le cause che hanno portato alla costituzione del primo . La gestazione dello Stato sociale, di cui la Costituzione di Weimar ne rappresenta il primo esempio, è frutto legato indissolubilmente alla Rivoluzione d’Ottobre. L’idea di cittadinanza, quindi non la semplice elargizione di alcune garanzie sociali, che il modello Welfare comporta è la risposta, pressoché obbligata, delle borghesie europee all’idea di cittadinanza posta in atto con l’Ottobre . È il rapporto di forza, maturato dentro un capitolo della guerra civile rivoluzionaria internazionale, che definisce i tratti sociali assunti dallo stato capitalistico a partire dagli anni ’20 del secolo scorso . In poche parole, quindi, il modello del Welfare nasce per scongiurare la propagazione della minaccia sovietica dentro i Paesi occidentali. Con tutto ciò l’esercizio della “sovranità nazionale” ha ben poco a che spartire. Le condizioni di vita dei subalterni dipendono dal rapporto di forza che questi, come classe, riescono ad esercitare, non dalle caratteristiche tecniche di un particolare modello politico. L’esercizio del potere politico, o la sua negoziazione, dipende dall’esercizio della forza che le classi sono in grado di mettere in campo. Questo rapporto di forza concreto è il solo che sta alla base delle relazioni giuridico – formali. La Costituzione è sempre “costituzione materiale” mai astrattamente giuridica. Questo il grande abbaglio di cui, ad esempio nel nostro Paese, sono preda le aree neo sovraniste di sinistra. Le reiterate battaglie “in difesa della Costituzione” non sono criticabili soltanto perché moderate o riformiste bensì perché mostrano di ignorare la realtà storica concreta. La Carta costituzionale del ’48 è stata il frutto di rapporti di classe materiali sedimentatisi dentro una guerra civile. Quell’atto formale è nato sulle montagne conquistate dall’insorgenza partigiana e dal “terrorismo” gappista praticato nelle città. È nato dalla solidarietà contadina verso le “bande armate”, da subito protette e foraggiate, e dalla complicità operaia manifestata verso i “terroristi” che in città incalzavano senza tregua il nazifascismo. Ciò che, a un certo punto, a guerra finita e vinta, il diritto ha dovuto ratificare è stato esattamente questo rapporto di forza materiale che la lotta di classe aveva imposto, sia all’interno dei perimetri nazionali, sia, con la vittoria dell’Armata Rossa, sul piano internazionale. La Costituzione repubblicana del nostro Paese è stata esattamente la formalizzazione di questo rapporto di forza . In ciò non vi è nulla di sovra storico e/o eterno. Così come non si possono resuscitare i protagonisti di quella stagione non è possibile artificialmente creare le condizioni per una riedizione di una statualità nazionale sovrana. Questa infatti sembra essere l’ipotesi dei movimenti sovranisti di sinistra i quali, peraltro, dimenticano che una sovranità statuale perfetta il nostro Paese non l’ha mai conosciuta.Su questa ipotesi, il cui immancabile corollario è la teorizzazione del “populismo di sinistra”, convergono oggi parti consistenti di quella galassia che in qualche modo continua a coltivare un’opzione politica legata alla storia del comunismo. In relazione a ciò, mai come in questo caso, sembra lecito asserire: le vie dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni. Perché? Partiamo, intanto, con il definire in quale contesto dovrebbe essere ripristinata e difesa la sovranità nazionale. Stiamo parlando dell’Europa non del Gambia o della Guinea Bissau: quindi di un’unione di stati imperialisti in cui agiscono governi che rappresentano le frazioni più aggressive della borghesia imperialista e non di amministrazioni fantoccio in mano al potere delle multinazionali. Stiamo parlando di Paesi che, non da oggi, rivestono un qualche ruolo, certo con gerarchie diverse, dentro il sistema imperialista e che, tra l’altro, hanno alle spalle un passato coloniale sicuramente di diversa corposità ancorché di identica ferocia . Evidenziarlo non rappresenta proprio una sottigliezza bensì qualcosa di sostanziale. L’evoluzione imperialista degli Stati europei poggia per intero sul loro passato coloniale, ovvero su una pratica di dominio, con alcuni non secondari approdi quali il genocidio di intere popolazioni. La civiltà europea, della quale lo Stato/Nazione rappresenta la cristallizzazione, poggia per intero sullo sfruttamento incondizionato delle popolazioni non bianche. La sovranità di questi Stati non è scorporabile dalle pratiche di assoggettamento, dalla riduzione in schiavitù di intere popolazioni, dai massacri e dal razzismo attraverso il quale dette pratiche sono state poste a regime . Certo, dentro un breve squarcio di tempo, con la dittatura rivoluzionaria giacobina, la forma dello Stato/Nazione europeo avrebbe potuto anche volgere in altra direzione ma, come ben sappiamo, Termidoro ha stroncato alla radice le ipotesi dell’estrema sinistra borghese sistematizzando la Grande rivoluzione entro le linee guida della borghesia industriale e finanziaria . Questa classe e i suoi interessi, a conti fatti, sono i veri artefici dello Stato/Nazione. L’eroe della borghesia vittoriosa non è certamente Robespierre, l’epopea giacobina è stata velocemente rimossa dalla memoria storica della borghesia fino ad arrivare, e non solo di recente, ad abiurare persino gli echi di quella rivoluzione . La borghesia si è velocemente liberata di Robespierre e degli echi della marsigliese i quali, semmai, hanno trovato cultori non secondari nel movimento operaio e comunista e, tra questi, sicuramente in Lenin .Non si può, nel mondo contemporaneo, costruire teorie neo sovraniste ponendo tra parentesi tutti gli orrori che la forma storicamente determinata dello stato nazionale sovrano ha comportato. Sicuramente una quota di subalterni europei ha anche tratto vantaggio da quella forma: tutta l’epopea coloniale, ancora prima di quella imperialista, ha consentito a quote di subalterni, dentro i mondi coloniali, di emanciparsi dalla loro condizione di subordinati per approdare a quella dei dominatori. Quella ricchezza, la pelle bianca, che in patria non aveva alcun valore perché le classi non si suddividevano su base cromatica, in colonia, dove la “linea del colore” era l’equivalente della aminity line , si mostrava fonte di una ricchezza inesauribile e inossidabile. Persino il lumpenproletariat, come il caso dell’Australia è lì a ricordarci, in colonia si è fatto prima rispettabile e poi classe dirigente . Lo Stato/Nazione si è costruito sul razzismo del quale anche i subalterni sono stati sostenitori come la storia della Seconda internazionale, in fondo, è lì a ricordarci in continuazione. Per quanto spiacevole tutto ciò possa essere, non può essere posto tra parentesi. Di questa civiltà, della quale la sovranità nazionale ne rappresenta la cifra, pertanto, non vi è nulla da salvare. Si tratta piuttosto di affossarla . I Paesi imperialisti europei, la cui sorte politica, economica e sociale è stata definita e determinata prima dagli esiti del Secondo conflitto mondiale, poi dalla “guerra fredda”, oggi sono in via di ridefinizione cercando, al fine di reggere la contesa imperialista contemporanea, di costituire un Polo imperialista autonomo. Questo, ridotto all’osso, quanto sta avvenendo nel contesto europeo. Non assistiamo alla storia di governi nazionali che stanno subendo la dominazione politica, economica e finanziaria a opera di un qualche blocco imperialista, ma di governi nazionali che si trasformano, o cercano di farlo, in “governo imperialista Continentale”. Un progetto, quindi, che non è subito, bensì fortemente agito seppure su scala differente. Nessuno sta sottraendo forzatamente quote di sovranità agli Stati europei ma sono gli Stati europei stessi che stanno, di comune accordo, ridefinendo un diverso tipo di sovranità. Gli Accordi di Schengen, così come la loro attuale ridefinizione, per capirsi, non rappresentano la fine dell’idea di confine ma la trasposizione di questo dentro perimetri diversi . Nessun governo europeo è obbligato a ridimensionarsi da qualche potenza esterna, al contrario i diversi governi della UE stanno trasformando i propri contorni politici per aumentare anche la propria potenza . La posta in gioco, per quanto l’operazione non sia per nulla lineare, è l’ambizioso progetto di unificare, in un imperialismo unitario, i diversi imperialismi locali. La cessione delle sovranità locali mira a dare corpo e vita a una sovranità più forte e meglio attrezzata. Dal punto di vista dell’imperialismo, del resto, questa si mostra come l’unica strada realisticamente percorribile. Nel momento in cui la fine del bipolarismo ha fatto saltare tutti gli equilibri postbellici, aprendo la via a una nuova feroce contesa interimperialista, sarebbe quanto mai bizzarro pensare di sostenere tale sfida mantenendo inalterati gli assetti del passato. Inoltre ciò che sfugge per intero ai neo sovranisti e populisti di sinistra è che gli ordinamenti statuali europei hanno potuto esistere, e nelle modalità conosciute, solo e unicamente in funzione della “guerra fredda” e che, quel particolare modello politico noto come Welfare State è stato qualcosa che ha potuto esistere e in parte prosperare solo in funzione antisovietica. Ciò che i neo sovranisti e populisti di sinistra dimenticano è che il modello delle relazioni industriali conosciuto in Europa, e tra l’altro solo in alcuni suoi Paesi, è stata la diretta conseguenza del modello politico sociale ed economico costruito nei Paesi socialisti e, almeno in alcune aree, della forza politico – militare messa in campo dai movimenti comunisti dentro la guerra. Non va dimenticato che, esattamente un attimo dopo l’andata in frantumi del Muro, il comando imperialista ha dichiarato che: un piatto di pasta non poteva più essere garantito a nessuno . Con quella felice metafora il comando del capitale ha archiviato il modello del Welfare State, utilizzato per un trentennio in un’area geografica di importanza strategica. Di colpo, anche se non proprio sorprendentemente, almeno per chi ha compreso e utilizza la dialettica marxiana per leggere i fenomeni storici, il capitalismo è tornato anche nei Paesi europei a svilupparsi attraverso il suo lato cattivo . Improvvisamente il modello che a molti, come dimostra l’abbaglio clamoroso coltivato dai neo sovranisti e populisti di sinistra, era apparso come il punto più elevato del sistema capitalistico, è andato in frantumi e le relazioni industriali del ‘900 europeo hanno iniziato a essere liquidate. Contemporaneamente, passo dopo passo, la condizione delle masse subalterne ha iniziato a essere uniformata a quella del proletariato internazionale. Quando con la fine dell’URSS, il “patto socialdemocratico” sancito dopo il 1945 è andato bellamente in frantumi, si è fatta chiara l’inconsistenza del capitalismo buono e dal volto umano. Questo il dato storico oggettivo. Un dato che non evidenzia attacchi alla sovranità nazionale dei Paesi europei da parte di fantomatiche e misteriose oligarchie finanziarie quanto una trasformazione alla radice della condizione dei subalterni dentro il nuovo scenario coltivato dalle borghesie europee imperialiste. Riprendendo tra le mani le indicazioni leniniane, tuttora valide e utili, ciò che diventa fondamentale per le avanguardie politiche, allora, è capire come, stando oggettivamente dentro questo scenario, sia possibile esservi contro. Il populismo di sinistra può esserne il modo? Al di là della terminologia colorita, a che cosa rimanda l’idea del populismo di sinistra? Semplificando, parlare di populismo di sinistra equivale ad ipotizzare che, all’interno dei perimetri dello stato imperialista in via di ridefinizione, vi siano delle frazioni di borghesia nazionale antimperialiste. In altre parole, significa immaginare l’esistenza all’interno dei paesi europei di una sorta di borghesia nazionale estranea e avversa alle politiche imperialiste con la quale è possibile costituire un ipotetico Fronte di Liberazione Nazionale. Uno schema che assimila gli Stati europei a paesi colonizzati o semi colonizzati .Il limite del neo sovranismo e del populismo di sinistra sta nell’osservare il mondo con le lenti del passato, pensando che esista ancora un Primo e un Terzo Mondo e che il primo detti i tempi e i ritmi della lotta di classe dell’intero Pianeta, reiterando una logica non distante dal secondo internazionalismo. É come se, sotto il profilo geopolitico, qualcuno continuasse a pensare il Golfo persico come appendice del Mediterraneo! A partire da ciò, ed è inevitabile, l’interesse principale rimangono le masse subalterne europee o meglio l’idea romantica che si continua a coltivare di queste. Come i populisti russi di fine Ottocento, invece di calarsi nel sangue e nella carne della classe del loro tempo, idealizzavano un’idea di classe tramontata, cercando continuamente di resuscitare un mondo che la storia aveva archiviato, i neo sovranisti e populisti di sinistra, oggi, vanno alla ricerca di una classe che non solo non c’è più ma che, nei termini da loro immaginati, non è neppure mai esistita. Come i populisti russi avevano idealizzato un mondo contadino il quale, in quei termini, era solo un immaginario, i neo sovranisti e populisti di sinistra nostrani idealizzano un mondo subalterno con contorni che questo non ha mai posseduto. Questa “idealizzazione” insieme all’ideologizzazione della forma politica dello Stato/Nazione impedisce a questa corrente di definire e comprendere concretamente il popolo contemporaneo . Questo popolo esiste oggettivamente oltre i confini dello Stato – Nazione e anzi ogni confine gli è irriducibilmente nemico . La rivoluzione non passa attraverso il ripristino di una qualche nuova forma di sovranità statuale, figlia di una determinata epoca imperialista, ma spezzando la macchina statuale stessa. Oggi è necessario saper organizzare e, ancor prima, comprendere il popolo che è figlio diretto dell’imperialismo globale, prodotto di una composizione di classe che nulla ha più a che vedere con le eredità della fase imperialista precedente. Leggere la nuova composizione di classe è il presupposto per dare fiato ad una nuova ipotesi rivoluzionaria all’altezza dei tempi . Non è nel passato che è possibile cogliere le risposte del presente. Torniamo così, come chiosa di questo passaggio, all’attualità dell’inattualità leniniana e alla necessità cioè di riformulare l’eresia del presente. Alla necessità di affondare la dialettica marxiana nel corpo vivo del presente.

Il lato cattivo della storia

L’altro grande spunto di ragionamento che i testi leniniani a ridosso del 1905 offrono riguardano la forma guerra e le sue ricadute sulla forma politica. Lenin coglie esattamente gli effetti politici che l’incipit della guerra imperialista comporta nella ridefinizione del rapporto tra le classi. La guerra interimperialista, di fatto, diventa il presupposto per la rivoluzione. Con la guerra russo – giapponese inizia a delinearsi nitidamente il ruolo strategico che la classe operaia e il proletariato rivestono dentro il conflitto. L’importanza e l’efficacia di tale comprensione stanno nella fattiva possibilità di trasformare, in maniera vittoriosa, la guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria. La fase imperialista pone, suo malgrado, la centralità della classe operaia dentro il sistema – mondo imperialista. La guerra, ancora prima che combattimento, è produzione. Produzione vuol dire industria e industria vuol dire classe operaia. Dentro questa nuova forma guerra, per paradossale che possa sembrare, l’imperialismo finisce in ostaggio della classe operaia e delle masse proletarie. La posta in palio dentro la guerra non è solo la supremazia imperialista ma la possibilità concreta per i subalterni di spezzare la catena imperialista. Di fatto la volontà di potenza degli stati imperialisti li porta ad istruire e armare le masse in quanto necessita del contributo di queste per potersi realizzare. Questo, che a prima vista può sembrare solo un fatto tecnico, ha in realtà notevoli ricadute poiché obbliga il sistema imperialista ad adoperarsi per catturare il consenso delle proprie masse subalterne. Così ha inizio in Occidente la lunga e contraddittoria stagione dell’inclusione politica e sociale delle masse subalterne dentro i Paesi imperialisti. In sostanza la forma guerra propria dell’epoca imperialista impone una determinata forma politica entro la quale, si può asserire, la “questione sociale” diventa “questione politica” . La guerra industriale consegna alla classe operaia una legittimità politica che la borghesia imperialista è obbligata a concederle. Ciò che dell’intuizione leniniana va colto, è la concettualizzazione della relazione tra forma guerra e forma politica e le ricadute che questa comporta. Tale intuizione va ripresa in mano e fatta reagire con il nostro presente, dove l’attuale fase imperialista ha azzerato lo scenario con il quale si è dovuto misurare Lenin. Nello scenario attuale la messa in mora del paradigma industriale della guerra comporta il sovvertimento di tutta la modellistica politica . Se con il 1905, e l’inizio della prima fase imperialista, le masse sono incluse via via nei perimetri della politica, oggi, nel sistema – mondo contemporaneo, ne vengono, passo dopo passo, escluse. Alla lunga stagione dell’inclusione politica e sociale subentra qualcosa di “antico”: la radicale esclusione dei subalterni da ogni ambito politico. Per certi versi, o almeno così potrebbe sembrare, la fuoriuscita dal ‘900 più che concretizzare immaginari futuristici e post – moderni sembra attingere i propri tratti caratteristici dallo scenario europeo ottocentesco . Le masse sono tenute fuori dalla politica e le classi dominanti sembrano ignorare l’esistenza di una “questione sociale”. In realtà il mondo attuale ha ben poco di ottocentesco ma, al contrario, è l’esatto punto di approdo di una modernità che ha unificato per davvero il mondo e lo ha fatto, come Marx aveva ben intuito, procedendo dal suo lato cattivo . La realizzazione della modernità si è compiuta mostrando la natura ideologica degli ordini discorsivi relativi alla civilizzazione e ai suoi processi: si è concretizzata mandando in frantumi tutti le chimere e le utopie ancorate al sogno umanista e illuminista europeo e alle sue pretese universalistiche . La piena modernità, nella quale siamo immessi, non fa altro che estendere allo stesso mondo Occidentale quel modello di dominio attraverso il quale questo ha governato, per tutta l’epopea coloniale e imperialista, la stragrande maggioranza del mondo . L’esclusione politica, lo sfruttamento, l’assenza dello stato di diritto , l’espropriazione violenta dei beni e delle risorse, processi che agli occhi delle popolazioni dei Paesi imperialisti si mostrano come novità, per le popolazioni soggette al dominio coloniale e imperialista non sono altro che banale routine. Questo dato persino scontato è stato continuamente rimosso dai discorsi legittimi nelle nostre società. L’egemonia politica, teorica e culturale esercitata dalla socialdemocrazia nei nostri mondi ha fatto sì, ponendosi in aperta polemica con la teoria leniniana, che i barbari rimanessero fuori dal nostro orizzonte politico, eliminando al contempo dal discorso pubblico le politiche coloniali e imperialiste e i loro effetti. Qua occorre aprire una parentesi e fare mente locale sulle reazioni delle nostre società di fronte al fenomeno dell’immigrazione. Si tratta di un argomento, come proveremo ad argomentare, che non costituisce una digressione ma affronta le questioni essenziali messe al centro da questa ipotetica ritraduzione di Lenin. Partiamo ponendoci una domanda: esiste oggi “una questione immigrazione”? La risposta appare scontata . Ma cosa significa porsi questa domanda se non riconoscere che, in fondo, gli immigrati sono un corpo estraneo alle nostre società? Cosa significa porsi “la questione immigrazione” se non percepire l’immigrato come qualcosa che rompe gli equilibri dei nostri mondi? Cosa significa ratificare l’esistenza dell’extracomunitario se non continuare a pensare che esiste un qua e un la rigidamente separati. In fondo le retoriche dell’accoglienza o del respingimento che tanto animano il dibattito politico europeo soggiacciono alla medesima logica: “gli immigrati sono altro da noi”. Ma gli immigrati sono veramente altro? I Paesi dai quali provengono sono veramente qualcosa che non ha nulla a che vedere con i nostri mondi? In altre parole, siamo ancora dentro i confini della vecchia fase imperialista? Ecco che, se posta in questi termini, la domanda sull’esistenza o meno di una “questione immigrazione” appare meno ovvia e scontata di quanto, in prima battuta, poteva apparire. La cosiddetta questione immigrazione, a ben vedere, non è altro che lo specchio per nulla deformato di ciò che la fase imperialista globale ha prodotto. Gli immigrati e con loro i rispettivi Paesi di origine non sono l’arcaicità che approda al moderno, non sono i retaggi di un qualche ritardato modello di sviluppo, non sono il frutto esotico che improvvisamente compare nel mercatino rionale sotto casa, ma l’avanguardia, sotto il profilo politico e sociale, dell’attuale modello politico, economico e sociale capitalistico. Gli immigrati non sono plebi, lumpen, e chi più ne ha più ne metta. Gli immigrati sono la concretizzazione della figura proletaria prodotta dal punto più alto dello sviluppo capitalista. Sono la storia del presente, non del passato. Paradossalmente, semmai, più che parlare di questione immigrazione, avrebbe senso parlare di “questione indigeni” poiché, mantenendo come coordinate le retoriche dello sviluppo capitalistico, sono gli indigeni, ovvero quelle quote di subalterni ancora interni alle retoriche industriali novecentesche, a incarnare il mondo di ieri e quindi sono questi, al pari di ogni indigeno, ad essere destinati alla scomparsa dalle dinamiche dell’attuale modello di produzione capitalista. Cosa che, del resto, sta avvenendo a velocità sorprendente . Non deve stupire, pertanto, che queste masse indigene tendano a orientarsi politicamente verso quei movimenti sovranisti di destra, xenofobi e razzisti, il cui orizzonte, andando al sodo, è il mantenimento dello scenario proprio della vecchia fase imperialista. Quel modello, infatti, consentiva l’esistenza di corpose e non secondarie quote di “aristocrazia operaia” materialmente legate agli interessi imperialisti. Per queste, insieme a tutti quei settori di piccola borghesia impiegatizia, commerciale o ascritta al mondo delle corporazioni parassitarie, la conservazione del “mondo di ieri” diventa una questione di vita o di morte. La polarizzazione sociale dell’attuale fase imperialista non può che proletarizzare gran parte di quella middle class sulla quale poggiava per intero il “consenso di massa” al potere imperialista nelle nostre società. La classe media e l’aristocrazia operaia occidentali di un tempo, il che è ampiamente capibile, rimangono strenuamente ancorate alle coordinate del vecchio mondo imperialista, guardando con avversione e terrore l’imporsi del nuovo ordine imperialista globale. La loro battaglia di retroguardia è tutta tesa ad evitare di precipitare dentro la condizione di vita del proletariato internazionale, non certo a sovvertire il modo di produzione capitalista. Per loro, ma non per il proletariato internazionale, la conservazione dei perimetri politici dello Stato/Nazione è qualcosa di assolutamente appetibile e desiderabile. In fondo ciò a cui questi settori sociali mirano è la conservazione di un modello politico in grado di riconvertire nelle loro tasche una quota dei sovra – profitti rastrellati dall’imperialismo sulla pelle e sul sangue delle popolazioni extra – occidentali. Questi settori, del resto, si sono sempre mostrati ampiamente schierati contro le insorgenze di popolo e proletarie di carattere radicale. Basti pensare, solo per citare esempi tanto noti quanto macroscopici, alla “linea di condotta” di questi segmenti di classe in Francia nel corso della Rivoluzione algerina , oppure nei confronti del movimento antimperialista tedesco degli anni Sessanta e Settanta o nell’Italia del decennio insurrezionale . Centrale in questo ragionamento è il riconoscere come oggi siamo posti di fronte ad una trasformazione radicale sia della forma – stato che ha fatto da sfondo al nostro ‘900 sia della composizione di classe e della sua soggettività. E con questo torniamo a Lenin.Per Lenin, la lotta di classe e la soggettività a questa coeva, sono il solo e unico termometro su cui misurare l’agire del partito. Tutto ciò, ovviamente, ha delle ricadute non secondarie sull’organizzazione e il suo modello questa è sempre il prodotto storico della lotta di classe, quindi di una determinata composizione di classe e della soggettività di questa. L’organizzazione non è mai data una volta per tutte ma, volta per volta, il partito formale è tale solo se in grado di essere la materializzazione storicamente determinata del partito storico. Dentro le fasi storiche l’organizzazione deve essere sempre in grado di cambiare pelle. Per farlo, non di rado, deve letteralmente gettare per aria tutto ciò che solo un attimo prima poteva considerarsi il punto di vista politico e organizzativo più elevato del conflitto di classe. Ma la storia e la lotta di classe obbligano a balzi, rotture e fratture che scompaginano e disorientano anche lo stesso partito d’avanguardia poiché quest’ultimo non può essere o pensarsi come soggetto astorico immune dalla dialettica storica. Ciò che vale per la classe, vale per il partito. Per questo tra partito formale e partito storico non può che esistere una costante dialettica storica in virtù della quale il partito formale è soggetto a una permanente mutazione. Mantenere la struttura, la forma e le retoriche del partito formale all’interno di un contesto storico trasformato vuol dire condannarsi all’estinzione. Ciò che è valso per i populisti, incapaci di leggere il mondo nuovo che avevano di fronte e perciò condannati a estinguersi o a sopravvivere nell’ambito dell’archeologia storica, vale non meno per il movimento comunista. Chi non coglie il portato delle giornate rivoluzionarie e, a partire da ciò, non è in grado di organizzare e rilanciare ciò che la lotta di classe ha posto all’ordine del giorno si pone, obiettivamente, fuori dalla storia. Chi, perché non previsto da un qualche Congresso di partito, non coglie il significato storico della forma – Soviet non ha capito nulla della lotta di classe. Chi non comprende come i Soviet siano esattamente l’albero verde della vita che, in maniera determinante, irrompe sempre prepotentemente nella storia, è solo un arido topo di biblioteca buono, forse, per gli studi eruditi ma del tutto incapace di stare dentro la storia. Chi, di fronte all’autonomia della classe, della quale i Soviet rappresentano la migliore esemplificazione, si rifugia in una presunta autonomia del concetto politico non ha mai capito nulla della dialettica marxiana e il suo orizzonte intellettuale è di gran lunga inferiore alle punte più elevate dello stesso pensiero politico e filosofico della borghesia, il quale, almeno per tutto il corso della sua fase ascendente, non si era fatto remore di cogliere, razionalizzare e concettualizzare proprio i tratti sovversivi e radicali che la lotta di classe borghese aveva posto all’ordine del giorno. Notoriamente, mentre la punta più avanzata della borghesia saluta, anche quando questi calpesta da conquistatore il suolo patrio, in Bonaparte lo “spirito del mondo a cavallo”, ponendosi in aperta opposizione e polemica con le vecchie classi dominanti, queste gli organizzano contro la Santa alleanza . Alla prova della storia, però, non la santa alleanza del mondo di ieri, bensì l’intellettualità in grado di cogliere il senso del divenire si mostra la sola e vera interprete del mondo reale. Solo mandando in archivio, attraverso passaggi violenti e sanguinosi, le vecchie forme politiche, alle quali in molti rimanevano saldamente ancorati, la borghesia, tra la fine del Settecento e la metà dell’Ottocento, è stata in grado di farsi classe storica. Solo cogliendo il senso delle rotture storiche, la borghesia ha potuto farsi classe dominante. Esattamente questa capacità rappresenta la funzione del partito d’avanguardia. Non si è avanguardia per auto proclamazione o per conoscenza teorica. Si è avanguardia se si è in grado di cogliere il senso profondo degli eventi storici e, a partire da questi, ridefinire tattica e strategia di partito. La dialettica storica, questo in fondo ci insegna Lenin, è sempre “ostaggio” della lotta di classe e della soggettività di classe. Il partito, di tutto ciò, deve esserne l’interprete cosciente. L’interprete, non l’autore. Per questo, come puntualizza senza mezzi termini Lenin, chi non è in grado di comprendere il significato che la soggettività di classe ha posto attraverso la guerra partigiana, non solo mostra di essere molti passi indietro rispetto al movimento reale delle masse ma, suo malgrado, finisce anche con lo svolgere una funzione controrivoluzionaria. Su ciò, per Lenin, non vi possono essere equivoci di sorta. Si tratta di passaggi e argomentazioni densi di ricadute. Per Lenin il partito è sempre e solo quella forma concreta in grado di cogliere l’essenza della storia e l’essenza della storia è data solo dalla lotta di classe.Non è difficile notare proprio qua il debito contratto da Lenin ancora prima che con Marx, con Hegel. Che cos’è l’essenza della storia se non lo “spirito del mondo”? Ma qua, tra l’idealista Hegel e il materialista Lenin, si pone tutta la cesura storica dovuta alla dialettica marxiana . Per Hegel lo “spirito del mondo” si incarna nel grande individuo storico. Lì si condensa tutta un’epoca storica. Lenin, invece, non guarda agli individui bensì alle classi storiche. Lo “spirito del mondo” leniniano si cristallizza nella lotta di classe, tanto anonima quanto tremenda, e non nel grande individuo. La soggettività delle masse è la sola vera interprete dell’epoca storica. È lì e solo lì che si colloca lo “spirito del mondo”. Ecco che, all’improvviso, colui il quale era stato accusato di anteporre il partito alla classe fa saltare il banco. La classe, la lotta di classe e la sua soggettività vanno anteposte a tutto. Se il partito non è in grado di adeguarsi a ciò, il partito non esiste, è inutile e finanche dannoso. Come Robespierre ha sempre a mente la Nazione, Lenin ha sempre nei suoi orizzonti la Classe. I rivoluzionari non hanno mai interessi di bottega ma solo intenti storici. Per questi sono disposti a battersi, comunque e sempre, contro tutto e contro tutti. Che ricadute ha, tutto ciò, nel e sul presente? Perché è utile riprendere tra le mani questi scritti? Che cosa possono avere di attuale questi testi che, di fatto, si mostrano così inattuali? Poche cose ma decisive. Il partito d’avanguardia è tale solo se è in grado di adempiere a tre funzioni: comprendere le rotture storiche che il modo di produzione capitalista ha imposto; leggere e interpretare le trasformazioni avvenute, in seguito a processi oggettivi, dentro la composizione di classe; infine, e non certo per ultimo, raccogliere, rendere cosciente e potenziare quanto il punto di vista più alto della soggettività di classe esprime. Se questo è l’insegnamento che è possibile trarre da Lenin dovremo convenire che nessuna ortodossia può esserci d’aiuto. Del resto se, come ricorda Marx sin dai tempi del Manifesto, il modo di produzione capitalista non fa altro che trasformare in permanenza il mondo, allora il compito del partito d’avanguardia sarà sempre un compito “ignoto” o per lo meno assai diverso da quello ampiamente conosciuto solo un attimo prima. Alla luce di ciò oggi appare necessario saper passare dal partito di Mirafiori al partito della banlieue . Ma fare questo significa prendere atto per intero di una frattura storica e, al contempo, esserne agenti attivi. Significa leggere i comportamenti della classe e, ancora una volta, andare a scuola dalle masse. Non per caso parliamo del partito della banlieue. Parlare del partito della banlieue necessita di alcuni chiarimenti poiché, il farlo, potrebbe essere foriero di non pochi malintesi soprattutto da parte di chi, facendo anche involontariamente proprie le retoriche della borghesia e dei suoi cani da guardia , legge la banlieue come sinonimo di marginalità, eccedenza, lumpen ecc. ecc. Come il luogo per eccellenza di quei mondi sociali, storicamente sconfitti ed espulsi dalla storia in quanto vittime dei processi di modernizzazione. Mondi sociali in estinzione dei quali, nella migliore delle ipotesi, occorre farsi carico semplicemente in maniera caritatevole. Secondo queste retoriche, così come la rivoluzione industriale aveva comportato la riduzione in povertà di una quota delle classi e dei ceti sociali delle società pre-industriali, anche la rivoluzione globale produce inevitabilmente i suoi poveri . Al contrario, l’oggettiva condizione di esclusione e marginalità delle popolazioni che abitano il contesto delle banlieues, ossia delle zone periferiche delle metropoli globali, prefigura il destino di gran parte delle classi sociali subalterne contemporanee , rappresentando quindi la storia del nostro presente. In altre parole, la banlieue è l’esatta cristallizzazione della condizione proletaria attuale, una condizione frutto di quelle pratiche di governance coloniale che rappresentano il progetto strategico per eccellenza dell’attuale comando capitalistico. In tale ottica, allora, le banlieues sono le nostre officine Putilov . È lì che si situa l’attuale composizione di classe e da questa composizione bisogna saper partire. Leggere la classe, oltre che leggere il capitale . Ma leggere la classe significa soprattutto cogliere e interpretare la sua soggettività. Non si può, e su questo tutto l’insegnamento leniniano si mostra costantemente attuale, osservare la classe solo e semplicemente nel suo essere oggettivo poiché, in prima istanza, è proprio nella classe e nei suoi comportamenti che si manifesta l’albero verde della vita. Il partito è un essere vivente che di questo albero è il frutto maturo, nell’agire del partito ogni oggettivismo è del tutto privo di senso poiché presupporrebbe, questo l’errore fatale di tutti i dogmatici estranei alla dialettica marxiana, una classe che entra in gioco solo attraverso gli input forniti dal partito. Ma, se la storia è la storia delle lotte di classe, questo assunto è del tutto privo di senso. Non sono le masse che devono andare a scuola dal partito ma il partito che deve comprendere ciò che le masse portano in seno e lo deve comprendere a partire dal punto più alto della soggettività di classe. Deve, cioè, assumere i comportamenti della classe, farli propri operando però un salto qualitativo. Deve, da un lato, modellarsi sui comportamenti della classe, dall’altro dare a questi comportamenti progettualità strategica e forza organizzativa. In questi anni, e anche in questo caso rimandiamo ai testi che in precedenza hanno provato ad analizzare le lotte della banlieue , abbiamo visto la reiterata esplosione di questi territori, alla quale ha drammaticamente fatto da contraltare l’assenza di un’iniziativa di partito. Questo, del resto, non è frutto del caso. L’assenza di un’iniziativa di partito non è altro che il frutto di una estraneità nei confronti di una composizione di classe mai oggetto dell’inchiesta militante . È possibile entrare in relazione con la classe se questa, a conti fatti, rimane un oggetto misterioso? È possibile parlare alle masse se se ne snobbano i comportamenti? Rispondiamo tornando a Lenin e al suo approccio con il 1905. La gran massa degli operai che danno vita alle giornate rivoluzionarie ha poca coscienza politica ed è distante e persino avversa alla teoria socialdemocratica ma, per Lenin, non è questo il punto. Centrale diventano due aspetti: le fabbriche, ovvero il cuore del popolo rivoluzionario, si sono messe in movimento; i comportamenti soggettivi di questi operai vanno di gran lunga oltre le loro momentanee rappresentanze ideologiche. Ciò che a Lenin realmente interessa è la radicalità che questa soggettività di classe mostra dentro la lotta. La classe combatte, si arma, è approdata all’insurrezione, senza averne coscienza è vero, ma la sta praticando e, aspetto non proprio irrisorio, sta spingendo la lotta oltre le stesse anticipazioni di partito. Le masse si organizzano per le battaglie di strada. Rispondono colpo su colpo a esercito e polizia. L’esercito stesso inizia prima a disertare i combattimenti contro gli operai e poi a rivoltarsi verso gli ufficiali. Nella lotta le masse trasformano, anche ideologicamente, se stesse. Questo e solo questo interessa a Lenin. L’insurrezione è in atto, questo e solo questo è ciò che conta. Nessuno può sapere a quali esiti porterà, perché l’insurrezione è guerra, combattimento, organizzazione militare, tutte cose che si imparano solo facendole. In ogni caso, comunque vada, questo sarà un’esperienza fondamentale per le masse. È questa esperienza che il partito deve essere in grado di assimilare e fare propria. Sono questi passi reali compiuti dalle masse nel fuoco del conflitto, negli scontri di piazza contro la polizia a essere il vero metro di giudizio. Non vi è risoluzione di partito che, di fronte a ciò, possa valere qualche cosa. Ecco l’inchiesta leniniana in atto. Ecco il legame di Lenin con la classe. Riportiamo tutto ciò alle insorgenze proletarie attuali delle quali, la banlieue rappresenta la migliore delle esemplificazioni. Lì una giovane classe mostra di battersi senza particolari remore. Lì il soggetto proletario del presente e del futuro pone in mostra una “nuova scienza delle barricate”. Lì vi è il laboratorio politico della classe contemporanea. Lì, se non vogliamo relegare il comunismo in quanto movimento che abolisce lo stato di cose presente in mero rituale ossificato, dobbiamo volgere lo sguardo. Lì occorre ritradurre Lenin.

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