Esclusione sociale e capitalismo globale. Per una discussione su lotte e organizzazione nel presente.

La borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l’immutata conservazione dell’antico modo di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’incessante scuotimento di tutte le condizioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca borghese da tutte le precedenti. Tutte le stabili e arrugginite condizioni di vita, con il loro seguito di opinioni e credenze rese venerabili dall’età, si dissolvono, e le nuove invecchiano prima ancora di aver potuto fare le ossa. Tutto ciò che vi era di stabilito e di rispondente ai vari ordini sociali si svapora, ogni cosa sacra viene sconsacrata e gli uomini sono finalmente costretti a considerare con occhi liberi da ogni illusione la loro posizione nella vita, i loro rapporti reciproci. (K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista)

Genealogia di un concetto

Tra i motivi che ci hanno portato alla stesura di queste note il ricorso al parlamentarismo sia di gran parte della residualità comunista sia della galassia antagonista ha giocato un ruolo non secondario. Attraverso la formazione di liste partitiche autonome o identificando, come nel caso dei 5 Stelle, un interlocutore dai decisi tratti “antisistema” il parlamentarismo continua a essere considerato un ambito importante, o perlomeno utile, per le masse subalterne. Notoriamente il tema del parlamentarismo è stato oggetto di non poche contrapposizioni all’interno del movimento operaio e comunista. A partire da Lenin e dal suo estremismo, malattia infantile del comunismo il “dogma” della partecipazione alle elezioni è stato moneta corrente per la maggior parte delle pur diverse anime del movimento comunista rispetto alle quali facevano eccezione le frazioni dei “comunisti di sinistra” e dei “comunisti consiliari” che con Lenin avevano rotto sin dai tempi del III Congresso dell’Internazionale comunista. In Italia, anche se non in chiave antileninista, il rifiuto del parlamentarismo può vantare una lunga, ancorché assai minoritaria”,tradizione grazie a Bordiga e all’area politica definitasi “sinistra comunista”. Sull’utilità di presentarsi o meno alle elezioni si sono consumati fiumi di inchiostro all’interno di quella “nuova sinistra” sorta sull’onda del ’68. Proprio il ’68 e le sue pratiche avevano pesantemente posto sotto critica il parlamentarismo e le logiche che si portava appresso. È la lotta/non il voto/è la lotta che decide era stata la “linea di condotta” dell’altro movimento operaio il quale, insieme al parlamentarismo, aveva posto in archivio per intero la logica della delega e di tutte le forme di rappresentanza dal sapore istituzionale. Con ciò il parlamentarismo diventava qualcosa di superfluo non tanto per una questione di principio ma perché superato dalla materialità dei fatti. In questo,a ben vedere, vi era una totale adesione proprio alle argomentazioni di Lenin il quale non assolutizzava il parlamentarismo ma lo giocava dentro la concretezza della fase politica. In un momento di ripiego partecipare alle elezioni aveva un senso ma, in una fase di attacco, non solo era insensato ma assumeva i tratti di un autentico tradimento poiché non la Duma bensì la strada diventava il solo e vero ambito di lotta. Con il ripiegamento del movimento di classe la questione del parlamentarismo tornò a farsi viva tanto da protrarsi sino ai giorni nostri. A nostro avviso questo dibattito si mostra del tutto privo di fondamento poiché non considera le differenze storiche tra la fase imperialista affrontata da Lenin e la fase imperialista contemporanea. Lenin agisce in un contesto nel quale è la borghesia stessa a includere i subalterni all’interno dei perimetri politici e statuali mentre, nel presente, assistiamo esattamente all’opposto. Per il potere politico le masse e il loro inserimento nel gioco istituzionale si è fatto del tutto privo di un qualche interesse tanto che gli elevati indici di astensione non sono forieri di alcuna preoccupazione. A differenza dell’epoca di Lenin,tutta incentrata sull’inclusione politica e sociale delle masse subalterne, oggi siamo dentro uno scenario completamente rovesciato: l’esclusione è la cornice entro la quale il potere politico ascrive classe operaia e proletariato ed esattamente da ciò che occorre partire.Il tema dell’esclusione sociale conosce oggi una fortuna inaspettata tanto da emanciparlo dagli angusti e ristretti ambiti disciplinari in cui, tradizionalmente, è stato ascritto. Mentre, classicamente, a occuparsi di esclusione sociale sono state discipline quali l’antropologia culturale, la sociologia della devianza e, in particolare negli ultimi anni, la sociologia della cultura oggi questa è diventata tema non secondario della teoria politica . Tutto ciò, già di per sé, è indicativo di quanto l’era attuale sia attraversata da un insieme di trasformazioni in grado di scompaginare per intero le coordinate concettuale di un’intera epoca. Non a caso gli stessi movimenti operai, proletari e comunisti che nei confronti dei temi dell’esclusione sociale hanno sempre nutrito interessi a dir poco vaghi oggi sono costretti ad assumerla come uno degli aspetti centrali della condizione dei subalterni. Legittimo, quindi, domandarsi che cosa sia accaduto. Occorre, pur sommariamente, ricostruire la storia di un concetto. Obiettivamente l’esclusione sociale ha sempre rimandato ai mondi della marginalità. Una marginalità che poteva essere ascritta a due ambiti. Il primo riconducibile direttamente al mondo dei poveri, il secondo a quello degli “anormali”. Per quanto, in non pochi casi, i due ambiti abbiano finito spesso con l’incontrarsi analiticamente occorre tenerli separati. Partiamo, pertanto, a definire l’ambito della povertà e a domandarci per quali motivi, i movimenti operai e comunisti, si siano sostanzialmente disinteressati dei poveri. Chi sono i poveri e in che cosa si distinguono dagli operai e dai proletari? Fondamentalmente in una cosa: questi non sono una classe sociale e, il che ne è l’aspetto decisivo, non sono e né possono esserlo una classe storica . A differenza del proletariato deputato a diventare agente della storia universale in quanto classe in grado di incarnare l’interesse generale, il povero consuma la sua esistenza dentro una dimensione mesta sia sul piano empirico sia su quello della scena storico – politica. Il povero, il marginale, l’escluso non sono in grado di rovesciare alcun rapporto di forza poiché, si potrebbe dire, la loro condizione si colloca fuori da una relazione dialettica ancorché nella dimensione servo – padrone . Del resto, mentre è pensabile la dittatura operaia, proletaria e contadina, come forma statuale in grado di organizzare il potere di classe in un determinato territorio a dir poco dadaista sarebbe un’ipotesi politica che fondasse la sua prospettiva sulla dittatura rivoluzionaria dei poveri . In poche parole, il marginale, il povero, il socialmente escluso incarnano sempre, almeno sotto il profilo economico e sociale, una disgregazione seguita ai processi di modernizzazione. Ciò che lo caratterizza è un sostanziale declassamento che lo fa precipitare ai margini della vita sociale . Non a caso, il socialmente escluso, è per lo più estraneo all’ambito della produzione e la sua vita si dipana tra assistenza pubblica e/o religiosa o attività illegali di piccolo cabotaggio. Lo stesso disoccupato, in quanto esercito industriale di riserva , ha ben poco a che spartire, indipendentemente dalle condizioni empiriche nelle quali può ritrovarsi, con il povero e il marginale. Solo nel caso in cui, in seguito al prolungato stato di disoccupazione, l’operaio vive un oggettivo processo di declassamento la sua iscrizione al mondo della marginalità diventa un fatto acquisito ma, per l’appunto, ciò è il frutto di un passaggio dentro un ambito sociale completamente diverso . In quel caso, l’operaio declassato, si ritroverà in mezzo ad altri declassati provenienti dalle più svariate classi sociali. In poche parole l’esclusione sociale, classicamente, sembrava porsi fuori dai rapporti capitalistici di produzione. Sotto tale profilo il capolavoro di Hugo è quanto mai esemplificativo. Il mondo dei miserabili raccoglie, al contempo, tutti i residui delle ere passate e le “vite di scarto” del presente, poiché escluse definitivamente dal ciclo di produzione capitalista. Questo mondo, sempre propenso a compiere un colpo di stato dal basso, non mira alla presa del Palazzo d’Inverno ma, ben più prosaicamente, al portafoglio di qualche malaugurato passante o, nella migliore delle ipotesi, agli arredi di qualche abitazione o negozio momentaneamente non custodito. In non pochi casi, il colpo di stato, è tentato o realizzato verso i propri simili per sottrargli le piccole fortune momentaneamente acquisite. Nei confronti del potere politico e della polizia in particolare questi ambiti si mostrano a dir poco ossequiosi e sempre pronti a vendere qualcuno in cambio di un momentaneo salvacondotto, qualche moneta o per acquisire un piccolo credito da consumare in una futura occasione. In non poche occasioni, inoltre, i socialmente esclusi non si sono fatti problemi a svolgere il “lavoro sporco” per conto del potere legittimo, in funzione antioperaia e antiproletaria. Più modestamente come crumiri o con qualche pretesa in più in veste di novelli pretoriani, per l’insieme di questi motivi, agli occhi della classe operaia e del proletariato, sono sempre stati percepiti come corpo estraneo se non come veri e propri avversari del fronte di classe. Dalla Brigata dei Macellai sino ai mazzieri fascisti il rapporto tra movimento operaio e marginalità sociale non è mai stato particolarmente amorevole . Il secondo ambito tipico del socialmente escluso, come si è detto, è riconducibile a quell’insieme di comportamenti ascrivibili ai mondi dei cosiddetti anormali . Un mondo quanto mai variegato che, attraverso i secoli, ha accolto nel suo grembo dal folle all’omosessuale. Il socialmente escluso, in questo caso, è sempre il frutto di un ordine discorsivo e di un effetto di potere dal duplice scopo: sperimentare in vitreo tecniche di controllo e di disciplinamento il cui utilizzo, in un processo a cascata, può essere esteso ai più svariati ambiti sociali; uniformare i comportamenti e i costumi della popolazione al fine di rendere la nazione più forte e più sana . Per sua natura il termine “anormale” è talmente polisemico da potersi, volta per volta, applicare a qualunque comportamento socialmente non convenzionale, in un preciso svolto storico. Come esempio non secondario può essere assunto l’ordine discorsivo che si è prodotto intorno all’omosessualità. La messa al bando dell’omosessualità ha attraversato l’intera epopea in cui la potenza statuale coincideva con la forza della nazione. Epoca in cui, produzione ed esercito, potere economico e forza militare si fondano prevalentemente sul numero. In tale contesto la forza di una potenza statuale sarà direttamente proporzionata alla sua capacità industriale, quindi alla quantità di forza – lavoro salariata messa al lavoro, unita alla vastità della mobilitazione militare che il numero rende possibile. In tale scenario la necessità di una nazione ricca, per non dire abbondante, di prole rappresenta per il potere politico un obiettivo strategico irrinunciabile. L’omosessuale, suo malgrado, diventa colui che “oggettivamente” compie un atto di sabotaggio nei confronti del potere. Non procreando, l’omosessuale, depotenzia il patrimonio nazionale e statuale limitando obiettivamente le capacità di riserva, economica e militare, dello stato . Significativamente, nel momento in cui il paradigma industriale della guerra viene meno, l’ordine discorsivo intorno all’omosessualità comincerà a mutare . L’emancipazione alla quale, nelle nostre società, la pratica omosessuale sembra andare incontro più che l’effetto di un improbabile processo di civilizzazione appare come l’effetto del mutamento di paradigma intervenuto dentro la forma guerra. Non è un caso, infatti, che l’ostracismo a cui l’omosessualità è tuttora sottoposta in determinate aree del mondo sia opera di sistemi statuali ancora pervasi dal paradigma della guerra industriale. Nelle nostre società “civilizzate”, tuttavia, l’ordine discorsivo intorno agli “anormali” non si è estinto ma ha semplicemente cambiato indirizzo o indirizzi cogliendo l’anormalità in quei comportamenti, come ad esempio nel caso degli ultras , in qualche modo turbativi di un ordine sociale che, per definizione, è dato per pacificato. Ma torniamo a occuparci della dimensione “strutturale” dell’emarginazione sociale. Andando al sodo se, come si è detto, non è il reddito in quanto tale a definire gli ambiti della marginalità e dell’esclusione attraverso quale criterio diventa definibile l’ambito dell’esclusione sociale? Rispondere che la dimensione del lavoro, e in particolare del lavoro salariato, è stata a lungo la condizione necessaria e sufficiente al contempo per delimitare il campo dell’esclusione e della marginalità è certamente vero ma, a sua volta, tale condizione era il frutto di una reciprocità che ha fatto da sfondo alla modernità, ossia alla nascita del modo di produzione capitalista. Parafrasando Schimtt potremmo facilmente sostenere che il rapporto borghesia e proletariato per quanto improntato oggettivamente su un criterio di inimicizia si è sempre dato dentro una relazione di eguaglianza: nemici sì, ma di pari grado e dignità. Ciò in qualche modo, del resto, era già presente in Marx. Che cosa significa, infatti, la nota affermazione presente nel paragrafo dedicato alla giornata lavorativa del primo libro de Il capitale: “Fra diritti eguali decide la forza”, se non che la relazione tra capitale e lavoro salariato, sul piano storico, si pone dentro una cornice di eguaglianza e reciprocità? Nel rapporto tra proletariato e borghesia sembra rivivere quello jus publicum che aveva regolarizzato la guerra tra stati legittimi, ossia europei, sino al delinearsi della guerra imperialista . Del resto la dialettica propria del modo di produzione capitalista non poteva che porre la questione esattamente in questi termini .

La grande trasformazione

Il comunismo, ovvero la teoria politica della nuova classe in grado di incarnare, e in maniera definitiva, l’universale poggia per intero sul punto d’approdo della filosofia classica borghese. Il ciclo storico progressivo della borghesia, sotto il profilo concettuale, si consuma in Hegel e Feuerbach lasciando irrisolta la questione della nuova classe che questo mondo ha partorito: il proletariato . Engels e Marx, facendo leva sui titani della borghesia, porranno a regime la teoria della parte “cattiva” della storia, della negazione del modo di produzione capitalista. In virtù di ciò la guerra tra proletariato e borghesia è un conflitto riconosciuto da entrambi i contendenti come legittimo. Palesemente, dentro tale cornice, non vi è spazio per l’esclusione. Non per caso, come avviene in ogni conflitto legittimo, la possibilità della mediazione, del ricorso all’arte della diplomazia e via dicendo è sempre possibile. Gli operai sanno che la borghesia è una forza storica che governa in virtù di una legittimità storica e politica così come, al contempo, la borghesia intravede nella classe operaia la forza storica in grado di seppellirla. Ridotta all’osso, e non è certo cosa da poco, tutta la storia del movimento operaio passato si riduce a ciò. Uno scenario che, nei nostri mondi, si è obiettivamente eclissato. Oggi noi riscontriamo come la condizione di socialmente escluso sia ben distante dall’indicare le classiche e in gran parte endemiche sacche di marginalità ma come tale condizioni si sia estesa a corpose quote di forza lavoro salariata. Ma tutto ciò da che cosa trae origine? Attraverso quali passaggi ciò si è reso possibile? Che cosa ha reso così familiare la condizione dell’esclusione? La questione non è liquidabile in poche battute poiché la repentina caduta dentro l’ambito dell’esclusione sociale è il frutto di più fattori che, nel corso dell’analisi, vanno tenuti costantemente a mente. Non si tratta, infatti, del semplice e meccanico riflesso di una condizione oggettiva (le trasformazioni intervenute dentro il ciclo produttivo) ma, piuttosto, il risultato di un insieme di interventi oggettivi (economici), soggettivi (politici) e teorici che hanno contribuito alla messa in forma dello scenario attuale. Una nuova definizione del concetto di esclusione sociale deve, pertanto, tenere costantemente a mente l’intreccio di queste tre dimensioni. L’irrompere dell’esclusione sociale come fenomeno interno alla condizione lavorativa di corpose quote di forza lavoro ha iniziato a delinearsi con l’era del cosiddetto capitalismo globale il quale ha coinciso, a grandi linee, con il crollo dell’URSS e la fine del bipolarismo . Da quel momento in poi, limitando lo sguardo alla condizione della forza lavoro salariata occidentale, si è assistito a una sorta di globalizzazione in basso della condizione operaia e proletaria. Tutto questo all’interno di un doppio movimento. Per un verso, attraverso i processi di delocalizzazione ed esternalizzazione dei processi produttivi , il ciclo della merce ha iniziato a essere dislocato nelle più svariate aree del mondo mentre, al contempo, le condizioni di vita e di lavoro presenti nei Paesi non occidentali ha iniziato a plasmare le relazioni lavorative anche dell’ex Primo mondo. Ricerca di sempre maggiore produttività e riduzione del costo del lavoro sono stati, accompagnati a cospicui provvedimenti di detassazione dei profitti, la linea di condotta del comando capitalistico internazionale. Nonostante le tensioni e gli squilibri che hanno attraversato e attraversano sempre più i diversi gruppi imperialisti , smentendo con ciò i vari teorici di Empire che si sono ritrovati ben presto tra le mai un Impero persino più breve del III Reich, nei confronti della forza lavoro salariata questi blocchi si sono mossi in maniera assolutamente unitaria e compatta . L’attacco alle condizioni di vita delle masse ha conosciuto picchi che, solo pochi anni addietro, neppure i più reazionari e destrorsi capitalisti avrebbero neppure ipotizzato. Un attacco che ha comportato non solo la “semplice” riduzione di salario, di garanzie, di diritti interni al luogo di lavoro e produzione ma si è dipanato su tutti gli ambiti sociali. Il costo del lavoro, infatti, non si limita alla semplice questione salariale ma investe, o almeno ha investito specialmente nei Paesi dell’Europa occidentale, tutto quell’insieme di “diritti sociali” non direttamente collegati agli ambiti aziendali . In questo senso il costo del lavoro associa alla voce salario propriamente detta una serie di aspetti complementari quali pensioni, sanità, scuola ecc. che costituiscono, o almeno hanno costituito, un insieme di capitoli di spesa legati a doppio filo al salario e alla forza operaia che questo incarnava. La lotta incessante, e tuttora in corso, contro la spesa sociale da parte di tutti i governi borghesi dell’ultimo trentennio raccontano esattamente il graduale e costante assedio a cui la forza – lavoro salariata dei Paesi occidentali è stata sottoposta e la sua sempre maggiore vicinanza a quella condizione lavorativa che, da tempo, l’imperialismo delle multinazionali aveva ampiamente sperimentato fuori dai confini del Primo mondo. È diventato persino banale tracciare le condizioni di vita oltre il paradossale e il grottesco a cui sono deputate quote di forza – lavoro non secondarie, con condizioni contrattuali che, in alcuni casi, si limitano alla singola giornata lavorativa, per non parlare di quella massa permanente di “occupati in nero” che solo dentro una condizione ex lege trovano una qualche possibilità di sostentamento. Infine, e non si tratta di un passaggio privo di ricadute, aumenta in maniera esponenziale il numero di coloro che vivono attraversando continuamente la soglia della legalità. Il dilatarsi dell’area penale, una costante che accomuna tutti i Paesi occidentali , testimonia quanto, per corpose quote di popolazione subordinata il ricorso all’illegalità funziona esattamente come stato d’eccezione permanente. Il tutto, sia ben chiaro, senza alcun romanticismo o ribellismo di sorta. La massa di subalterni che attraversano le soglie della legalità hanno veramente ben poco del bandito e/o del masnadiero così come, nel loro agire, non vi è nulla di, almeno sotto il profilo “oggettivo”, antagonista o di poco convenzionale ma, ben più prosaicamente, vi è l’assunzione drammatica e realista al contempo di una condizione esistenziale che non lascia molte vie di fuga . Per cospicue quote di forza – lavoro subordinata, il ricorso all’illegalità, non è altro che la “banale” articolazione di una complessa giornata lavorativa nella quale, volta per volta e in base alle richieste del mercato, si svolgono diverse funzioni . Del resto, e non è un caso, la stragrande maggioranza delle attività illegali sono legate a quell’insieme di servizi “illeciti” ampiamente richiesti dalla società legittima. All’interno di questa sorta di “terziario illegale” si consumano quote di giornate lavorative di quel “lavoro (e lavoratore) senza fissa dimora” di cui le nostre società sembrano essere sempre più voraci. Uno scenario talmente diffuso da non fare neppure più notizia.Questi dati strutturali e oggettivi hanno avuto bisogno di un involucro soggettivo, ossia politico, in grado di gestire al meglio tale passaggio. Questa forma è riconducibile a quel movimento cosiddetto neoliberista e/o ordoliberale che ha caratterizzato un intero ciclo storico della borghesia. Un ciclo politicamente organizzato a partire dai primi anni Settanta del secolo scorso la cui gestazione affonda le radici sin dentro il dibattito degli economisti e dei politologi tra le due guerre . A caratterizzare questa fase, in maniera apparentemente sorprendente, è la “rivolta” della borghesia, e soprattutto delle sue frazioni imperialiste, nei confronti dello stato. A partire dai primi anni Settanta abbiamo così assistito a una continua battaglia anti statuale da parte di corpose quote di borghesia. Ma di quale battaglia si è trattato? A ben vedere a venire intaccate non sono state certo le funzioni propriamente politiche dello stato piuttosto a essere costantemente sotto tiro sono stati gli interventi statuali dentro la società e la funzione di mediatore dei conflitti assolta dallo stato per gran parte del Novecento a partire da quella grande cesura storica che è stata la Prima guerra mondiale . In poche parole ciò che è diventato oggetto di critica costante da parte della borghesia è stato il carattere anche sociale dello stato. L’obiettivo strategico di questo discorso ha mirato a separare lo stato, ossia la sua funzione squisitamente politica, da quella sociale. Quali sono le ricadute al contempo oggettive e soggettive di questo passaggio? Si tratta semplicemente, anche se questa è la ricaduta empirica più immediata ed evidente, di un impoverimento più o meno generalizzato delle masse subalterne? Si tratta di un semplice ridimensionamento di quell’insieme di “consumi”, dove per consumi non si intende semplicemente la quota di merci acquisibili tramite il salario bensì di quel “consumo sociale” che passa attraverso il diritto alla salute, allo studio, alla gestione di ampie quote di tempo libero e così via? In poche parole si tratta di una partita che si gioca per intero dentro la dimensione economica oppure, tutto ciò, si porta appresso una mutazione radicale e complessiva della relazione tra capitale e lavoro salariato rispetto a ciò che, pur con tutte le modifiche e le rotture storicamente intervenute, abbiamo sino ad ora conosciuto? La condizione dell’esclusione sociale lascia, fatte le tare del caso, immutate le cornici del conflitto oppure, dentro la fase imperialista attuale, gli elementi di rottura rispetto alle epoche precedenti sono di tale portata e ricaduta da investire nel suo insieme la relazione tra comando capitalistico e masse lavoratrici subordinate? I dati obiettivi porterebbero a optare per quest’ultima ipotesi ed è esattamente dentro questo passaggio che la questione dell’esclusione sociale si emancipa dagli angusti e classici ambiti della marginalità per diventare tema centrale delle nostre società. Ciò a cui assistiamo è al venir meno di quel rapporto di reciprocità tra borghesia e proletariato che aveva caratterizzato un intero ciclo storico. Di fronte a sé, la borghesia, non riconosce alcun hostis ma solo, sul fronte interno, “anormali” e canaglie sul piano internazionale . A caratterizzare la fase attuale è l’assenza del nemico pubblico e della dimensione esistenziale propria del “politico”. Dentro tale scenario, per forza di cose, diventa impensabile ogni ipotesi di mediazione e/o di diplomazia poiché, perché tali pratiche possano venir messe a regime, occorre che il principio di reciprocità giri a pieno regime. In definitiva l’esclusione sociale non è altro che la forma “concreta” di un passaggio ancor più radicale: l’espulsione delle masse dalla scena pubblica, quindi dalla politica. Un’esclusione che investe per intero il sistema – mondo.

Le armi della critica

Tutto ciò ha degli effetti non secondari e in tale scenario, per gli esclusi, non sembrano offrirsi molte soluzioni. Chi, nel grande gioco del capitalismo globale, si ritrova tra le mani una scala bucata può solo, se la sorte glielo consente, provare a cambiare tavolo di gioco e confidare in un colpo di fortuna mai ipotizzare la fuoriuscita dalla sua condizione in maniera collettiva. L’unica strategia sensatamente realistica diventa l’arte di arrangiarsi. Per restare nel panorama italiano ciò si riduce, tanto per fare qualche esempio, a un invito al Grande fratello, entrare nell’entourage di Palazzo Grazioli o, dopo essere scampati alla morte in fabbrica, diventare parte dello show parlamentare . Queste le uniche e concrete strade perseguibili per i socialmente esclusi. Dentro le strettoie di questo passaggio altre vie non ve ne sono. Fuori dalla prospettiva della Storia sono Ruby e non Zohra , Fedez e non Ali la Ponte a dettare i tempi e i modi dell’emancipazione. Ma che cosa caratterizza tutto ciò? Sostanzialmente una cosa: la dimensione puramente individuale, e quindi del tutto contingente, dell’esistenza. Fuori da un corpo e un “destino” storico e collettivo non vi sono alternative. Ora, al di là di tutte le retoriche che si possono utilizzare per indicare un destino collettivo, un solo passaggio rende realmente storico e collettivo un progetto: la conquista del potere politico e il farsi classe dominante . Tutte le altre forme di esistenza collettiva, per loro natura, non possono che risultare effimere e prive di ricadute sostanziali. È possibile essere catturati collettivamente dal pathos per la propria squadra del cuore, cadere in estasi collettivamente sotto le note di una sinfonia particolarmente cara o di un sound accattivante, si può praticare il “patriottismo di quartiere” o legarsi allo stile di vita di una gang condividendone oneri e onori ma tutto ciò, alla prova dei fatti, non emancipa di una virgola la condizione di fondo . Solo il farsi classe storica consente di squarciare il velo alla prosaicità del presente. Solo il farsi classe dominante consente di guardare negli occhi il mondo senza perdersi nelle anguste, per l’intera vita, prospettive condominiali. Un intera arcata storica, nel bene e nel male, è stata informata da tale scenario. I proletari, gli operai, i subalterni delle epoche che ci hanno precedute non percepivano se stessi come esclusi, marginali, socialmente delegittimati e via discorrendo ma parti di un tutto che, alla scala della storia, rivendicava una legittimità storica e politica oggettivamente determinata. Il comunismo e il potere operaio come tendenza storica non negoziabile era qualcosa che stava dentro la realtà delle cose. Contro questo, il potere imperialista, poteva solo, a ben vedere, giocare di rimessa conscio in qualche modo che, offensive tattiche a parte, sul piano strategico la sua non poteva che essere una posizione di ripiego e difesa. Il detto del vecchio Keynes: “Sui tempi lunghi siamo tutti morti”, rendeva in qualche modo esplicita la convinzione della borghesia di stare combattendo una battaglia di retroguardia, il cui fine non era altro che trascinare il più a lungo possibile lo stato di agonia. In tale ottica l’affermazione: “L’imperialismo è una tigre di carta” era qualcosa di ben più che un modo per rincuorare gli effettivi di un Esercito rosso in via di ricostituzione bensì l’affermazione di una “certezza storica” che poggiava su fatti difficilmente contestabili. Se guardiamo all’intera storia del Novecento, e in particolare ai decenni Sessanta e Settanta, il senso di tale affermazione appare persino banale. Ma dietro a tutto ciò che cosa c’era? Un inguaribile ottimismo?, Un eccesso di alcool?, Una malcelata volontà di potenza?, oppure, più realisticamente, tutto ciò poggiava su un’idea – forza, quella della lotta per il comunismo, che aveva plasmato intere generazioni operaie e proletarie e che, con la vittoria dell’Ottobre, aveva posto, non più teoricamente ma praticamente, all’ordine del giorno la dimensione storica del proletariato? Di ciò, non stupidamente, ne erano ampiamente consapevoli i quadri migliori delle varie borghesie imperialiste. La lotta contro lo spettro rosso del potere operaio e proletario diventa l’alfa e l’omega del comando capitalistico internazionale. Sotto questo aspetto, tanto per fare degli esempi concreti, la Guerra del Vietnam e la Guerra d’Algeria ne sono state la migliore cartina tornasole. Sotto la bandiera dell’anticomunismo tutte le forze imperialiste, pur se a diversi gradi, si sono ritrovate unite su quel campo di battaglia . Verrà da domandarsi che cosa, tutto ciò, abbia a che vedere con la presente questione dell’esclusione sociale. Perché questi continui richiami a una storia della quale, obiettivamente, si fa persino fatica a ritrovarne traccia tanto che, il solo parlarne, sembra accomunarci a quella massoneria dell’erudizione inutile della quale, la storia europea, vanta una corposa tradizione ? In realtà, nel contesto, ci troviamo di fronte a qualcosa di ben poco massonico, erudito e ancor meno inutile. In palio, infatti, vi è la questione del marxismo e del suo essere idea – forza. Che cosa occorre, andando al dunque, alle masse dei dannati delle metropoli contemporanee? Attraverso quali passaggi diventa possibile, sensato e realistico modificare i rapporti di forza attuali tra le classi? Partiamo, intanto, con il riconoscere che tutte le illusioni e gli abbagli coltivati, in primis dall’intellighenzia modernista della sinistra, hanno fatto repentinamente bancarotta e che, non per caso, si assiste a un ritorno a Marx. Allo stesso tempo la questione dell’organizzazione, non nelle sue derive effimere e plastificate, torna a essere oggetto di interesse e ragionamento politico. In qualche modo persino Lenin riprende ad albeggiare tra gli orizzonti dei movimenti antagonisti . “I fatti hanno la testa dura” e alla fine diventa difficile eluderli come se nulla fosse. Proprio dentro questa possibile renaissance occorre però non farsi prendere dagli eventi o dagli entusiasmi e usare sino in fondo le armi della critica evitando facili scorciatoie insieme alle inevitabili semplificazioni che queste si portano appresso. Occorre, questo il compito di chiunque si pensi come avanguardia, mettere il marxismo alla prova dei tempi evitando in tal modo di ridurlo a dogma e a vuoto esercizio accademico. Detto ciò, torniamo al nostro tema. Una facile, ovvia e certamente sensata risposta alla condizione di classe contemporanea è quella che porta a identificare nella ri – costruzione dell’organizzazione di classe nella forma partito e nel “restauro” del marxismo le necessità primaria degli attuali dannati delle metropoli.. La risposta è corretta ma, per non cadere in un facile quanto inconcludente “organizzativismo” e dottrinarismo senza costrutto, occorre riempire di carne e sangue questo passaggio al fine di non trasformare la prima in semplice questione “tecnica”, la seconda in mera operazione “scolastica”. La carne e il sangue di ogni organizzazione proletaria è data solo e unicamente dalla prospettiva politica che è in grado di far vivere dentro le lotte. Ogni lotta parziale, ogni lotta settoriale, ogni piccolo conflitto metropolitano, ha senso se inserito in una prospettiva se ogni lotta, ricordando Lenin, è una “scuola di guerra”. Una guerra non indifferenziata e indistinta ma una guerra che, grazie alla sintesi del “politico” o, per essere maggiormente chiari, dell’elemento soggettivo è in grado di sedimentare organizzazione e, con questa, forza politica autonoma della classe . In assenza di una prospettiva storico – politica ossia di una dimensione che ponga, in via definitiva, la questione del potere politico e la sua conquista è impensabile che l’orizzonte delle masse possa forzare l’ordine dello stato di cose presenti. Una volta compiuto tale passaggio, almeno in apparenza, tutto sembrerebbe diventare persino banale e in virtù di ciò il semplice “restauro”del marxismo esserne, al contempo, corollario e premessa. Ma per condurre con efficienza ed efficacia un tale compito è necessario, per prima cosa, capire dentro quale scenario si sta agendo . Certo una ripresa di una certa “didattica di classe”, a fronte dello scempio teorico conosciuto negli ultimi venti, trenta anni è un’impresa di per sé meritoria ma sarebbe altrettanto ingenuo pensare che un tale passaggio, di per sé, possa presentarsi risolutivo. Si tratterebbe, in qualche modo, di ricadere in un’operazione “culturalista” , magari tramite la riscoperta del non troppo felice intellettuale organico di gramsciana memoria , attraverso la quale riuscire nuovamente a far quadrare il cerchio. Una tentazione che oggi, in seguito ai reiterati fallimenti e disastri a cui è pervenuta l’insieme della sinistra, conosce una certa diffusione. Si tratta di un’operazione che, per quanto comprensibile, ha ben poco di marxista. Non è certo attraverso l’artifizio del mito che la teoria comunista, in quanto unità dialettica di teoria e prassi, può realisticamente assolvere ai compiti del presente. Non è guardando indietro, andando alla ricerca di una, per altro improbabile, età dell’oro che si rende un qualche servizio utile alla classe. Da sempre, e in ciò il “metodo leniniano” è in grado di raccontare ancora molto, lo scopo e la funzione del marxismo consiste nel porre l’organizzazione della classe, escludendo ogni volo pindarico dentro la “concretezza” del presente . Allora, per tornare al filo conduttore del nostro discorso, la questione dell’esclusione sociale può e deve essere compresa dentro lo scenario del presente avendo a mente i passaggi che hanno caratterizzato l’attuale fase imperialista. Se, come ormai anche gli ipovedenti sono in grado di osservare, per l’organizzazione statuale imperialista il problema di fondo consiste nell’escludere le masse ben poco sensato appare il riproporre modelli politici e organizzativi di un’epoca in cui, con tutte le contraddizioni che pure si portava appresso, il tema dell’inclusione politica e sociale dei subalterni rimaneva un obiettivo di non secondaria importanza per le stesse classi dominanti. La vera sfida che oggi la teoria marxista deve affrontare è la formulazione di una soggettività in grado di misurarsi con gli scenari del presente. Affermare che la Storia non è finita e che le contraddizioni del modo di produzione capitalistico non si sono esaurite anzi sono sempre più macroscopiche e devastanti è un passaggio importante ma ancora insufficiente. Tutto ciò può portare a riaffermare, e non si tratta ovviamene di cosa da poco, dell’esistenza del partito storico del proletariato ma questa, se è la condizione al contempo preliminare e indispensabile per ogni possibilità di ragionamento su organizzazione e partito, è altresì lontana dal risolvere il problema poiché non è attraverso la semplice restaurazione di un corpo teorico classico che diventa possibile venire a capo delle sfide del presente. L’esergo, in realtà l’incipit, posto a fronte del testo ha ben poco di casuale e ancor meno di “rituale” o ossequioso. Il richiamo a quel fondamentale passaggio del Manifesto è posto perché obbliga a guardare avanti e ad avere il coraggio di leggere, per potere conseguentemente agire, le rotture alle quali, nel suo divenire, il modo di produzione capitalista impone.

L’eterno ritorno dell’eguale

Torniamo quindi alla questione dell’esclusione sociale. Andando al dunque noi oggi assistiamo a un autentico rovesciamento di prospettiva delle relazioni tra le classi. In poche parole siamo passati da un rapporto fondato sull’uguaglianza e la perfetta simmetria tra queste a una relazione declinata sull’ineguaglianza e l’asimmetria. In altre parole teoria e organizzazione di classe sono obbligate a ripensarsi a partire da un rapporto sociale e politico fondato sull’asimmetria. Ma tutto ciò a che cosa rimanda? Non è forse la guerra asimmetrica la forma guerra del presente ? Non è da lì che, con ogni probabilità, occorre partire per delineare le forme organizzative del presente? Se, come sembra sensato sostenere, rimane pur sempre vero che è dall’anatomia dell’uomo che si ricava l’anatomia della scimmia solo a partire dal punto più alto del “politico” diventa possibile decifrare il presente in tutte le sue articolazioni . Realisticamente non è possibile pensare l’organizzazione politica della classe, la sua forma partito nella fase imperialista contemporanea, omettendo di fare i conti con il carattere proprio di questa fase di cui la guerra e la sua forma ne sono, al contempo, aspetti costitutivi e costituenti . Sarebbe come se, Lenin e i bolscevichi, avessero pensato di costruire l’Internazionale comunista ignorando al contempo la natura del capitalismo monopolistico e finanziario, la forma stato messa a regime nel corso della Prima guerra mondiale insieme alla forma guerra a cui tale scenario obbligava . Nessuno, dotato di un minimo di buon senso, lo potrebbe persino immaginare. Oggi, avendo a mente le mutazioni oggettive che la nuova fase imperialista ha imposto e sedimentato, occorre decifrare per intero il senso e il significato che la relazione di asimmetricità comporta. In tutto ciò, a ben vedere, vi è ben poco di innovativo ma, proprio assumendo per intero questa prospettiva, ci collochiamo di diritto all’interno della piena “ortodossia” . Pensiamo a Lenin e all’importanza che il Della guerra riveste per la messa a punto del “pensiero strategico” del bolscevismo. L’idea di partito come “quartiere generale” è esattamente mutuata dall’evoluzione del pensiero militare, attraverso Clausewitz prima e Moltke (il vecchio) dopo. Un concetto che, a sua volta, si inseriva appieno sulla scia delle trasformazioni che Napoleone aveva apportato alla “arte della guerra” . Lenin, quindi, modella il partito formale tenendo costantemente a mente la cornice all’interno della quale la forma guerra è catturata dal pensiero strategico della borghesia. Lo studio sistematico dell’organizzazione degli eserciti borghesi, per Lenin, non è un hobby ma un lavoro di partito a tutti gli effetti poiché la compenetrazione di politico e militare è immediatamente riconosciuto come l’a priori che sta in permanenza sullo sfondo della politica . Lenin, pur portando sino alle estreme conseguenze le coordinate della forma guerra a lui contemporanea, attraverso la concettualizzazione della guerra civile internazionale ne mantiene i contorni all’interno di una relazione sostanzialmente simmetrica. Del resto, indipendentemente dall’asimmetria “tecnica” che ha per lo più caratterizzato la guerra tra subordinati e classi dominanti, ciò che, ai fini del nostro discorso è importante evidenziare, è la relazione tra forze di pari grado e dignità a cui il conflitto tra proletariato e borghesia concettualmente rimandava in quella determinata fase imperialista. La fase imperialista con la quale Lenin fa i conti, pur avendo oggettivamente unito il mondo, non lo ha reso uguale. La “questione coloniale” presenta, a tutti gli effetti, peculiarità proprie che vivono in unità dialettica con le lotte del proletariato dei Paesi altamente industrializzati, senza per questo potersi uniformare meccanicamente a questi .Per molti versi la relazione improntata su un rapporto asimmetrico può vantare una lunga e consolidata tradizione. Tutta la storia del colonialismo, infatti, rimanda esattamente a ciò. Mentre, all’interno di quell’ordinamento spaziale ascritto al “mondo civile”, la guerra e la sua conduzione soggiaceva a una regolamentazione improntata al reciproco riconoscimento, oltre confine nessun vincolo limitava la conduzione delle operazioni militari. Il tratto “non – umano” a cui erano ascritte le popolazioni esterne ed estranee al “mondo civile” consentiva di agire nei loro confronti senza remore di sorta. Sullo sfondo di ciò vi era una giustificazione che, col tema che stiamo affrontando, ha molto a che vedere poiché a legittimare la mano libera verso quelle popolazione era un’assenza: la mancanza di storia . Tutta l’epopea coloniale è rappresentata come un continuo confronto tra i popoli con una storia, le potenze coloniali, e i popoli senza storia, gli abitanti dei territori colonizzati le cui esistenze, agli occhi dei colonizzatori, si mostrano come pura contingenza. Gli eserciti coloniali non si trovavano di fronte un nemico “politicamente organizzato” bensì masse indistinte, organismi tribali, strutture etniche e via discorrendo. Lo scarto tra questi organismi e la forma politicamente organizzata dei conquistatori non poteva che delineare, a partire dalla sua concettualizzazione, una relazione asimmetrica. Uno scenario che, in un processo a cascata, informa tutte le relazioni tra colonizzatori e colonizzati a cominciare dal modo in cui il colonialismo gestisce il rapporto con la forza lavoro indigena. L’asimmetria che regola la forma guerra, infatti, non può che informare per intero il rapporto tra i proprietari colonialisti e i lavoratori indigeni. In colonia quella relazione uguale e simmetrica individuata da Marx che lo portava ad affermare che tra diritti eguali, vince la forza, non regola il rapporto tra colono e colonizzato . Certo, la forza continua a mantenere per intero la sua valenza demiurgica ma, ed è questo il punto, fondandosi su una relazione asimmetrica.Nel passato il diritto alla storia, per i popoli colonizzati, è passato attraverso il legame con il movimento comunista internazionale frutto della rottura storica che Lenin e il bolscevismo furono in grado di imporre dentro il movimento operaio e proletario internazionale. Sino alla formazione dell’Internazionale comunista, i popoli senza storia, avevano avuto all’interno del movimento operaio cittadinanza praticamente nulla. Il tratto etnocentrico, velocemente convertitosi in razzismo e imperialismo, di gran parte della Seconda Internazionale aveva tranquillamente posto tra parentesi la “questione coloniale” . Sono Lenin e i bolscevichi a porla come aspetto fondamentale all’interno del rapporto rivoluzione/controrivoluzione. L’Internazionale comunista pone i popoli coloniali, le loro storie e le loro lotte, come naturali alleati dell’organizzazione politica del proletariato, con ciò i popoli senza storia acquistano il diritto a esistere in quanto forma “politicamente organizzata”. Ciò che sarebbe stato impensabile, sotto il profilo concettuale, per Abdel Kader , diventa persino ovvio per il FLN . L’Internazionale comunista, portando i popoli colonizzati dentro il “politico”, li emancipa dalla dimensione prepolitica in cui il colonialismo li aveva ascritti. Le retoriche incentrate sulle culture, sulle etnie ecc. cominceranno a ritirarsi dallo scenario del discorso politico per far posto a termini universalistici quali popoli, nazioni, classi. L’inclusione della “questione coloniale”, portando i popoli senza storia dentro l’orizzonte della rivoluzione socialista, li ascrive di diritto dentro il lessico della politica.Lenin include la “questione coloniale” a pieno titolo dentro la relazione rivoluzione/controrivoluzione non sulla base di un astratto e altrettanto inconcludente umanitarismo ma come diretta e logica conseguenza che l’epoca imperialista ha comportato per il modo di produzione capitalista e il sistema – mondo che questi, obiettivamente, ha ormai realizzato. I “popoli senza storia”, dentro la fase imperialista, diventano comparti strategici in virtù della funzione che assolvono proprio per l’imperialismo. Sono loro, in fondo, a tracciare e ad anticipare il divenire a cui il sistema – mondo del capitalismo aspira. La “felice sospensione” di cui ha potuto usufruire il proletariato occidentale, e in primis quello europeo, tra il 1945 e il 1989 osservato su un piano oggettivo e disincantato è stata l’aporia a cui l’esistenza del Patto di Varsavia, con lo scenario bellico che questo presupponeva proprio dentro il Vecchio Continente, ha obbligato il comando del capitalismo internazionale. Per il modo di produzione capitalista non l’operaio europeo ma il proletario extra occidentale incarnava la sua linea di sviluppo. In altre parole è sempre il lato cattivo a tracciare il divenire di una formazione economica e sociale . L’orizzonte dentro cui viveva il proletariato occidentale, a partire dal 1989, si è repentinamente volatilizzato. Da quel momento in poi tutte le argomentazioni proprie dell’era coloniale hanno trovato una nuova e piena cittadinanza. Declinato in versione scontro tra le civiltà o nel più rassicurante e apparentemente indolore ordine discorsivo del multiculturalismo nel mondo ormai fattosi realmente unico è la relazione asimmetrica tra le classi a diventare egemone . Una condizione che, a macchia d’olio, cattura quote sempre più ampie di popolazione. Non troppo differentemente dalle popolazioni colonizzate, gli esclusi del mondo contemporaneo, sono tali, indipendentemente dalle loro specifiche condizioni empiriche, poiché appaiono privi di esistenza storica . Ciò che li rende impotenti è l’assenza di una prospettiva storica che solo il costituirsi in classe “politicamente organizzata” è in grado di garantire. Ciò non significa assenza di lotte e di conflitto, il mondo attuale è molto meno pacificato di quanto lo si voglia far apparire ma, l’assenza di una forma politica adeguata alla fase contemporanea, imprigiona le lotte del presente dentro un limite “astorico” insuperabile. Se, come queste note stanno delineando, l’assonanza tra esclusione sociale e modello coloniale presenta non poche similitudini si tratta allora di individuare entro quali coordinate esclusione sociale e tempo storico possono “concretamente” incontrarsi poiché solo questo è il passaggio che consente alle lotte oggettive di farsi forza soggettiva. Molto concretamente è dentro tali coordinate che, quindi, va nuovamente posta la fatidica domanda del Che fare?. Studiare, in tutte le sue articolazioni, la forma guerra ne rappresenta un primo ma indispensabile passaggio, a partire da quell’interesse per la “guerra in città e tra la gente” alla quale, i centri strategici e di intelligence, dedicano non poche risorse ed energie; così come, la rivisitazione critica di tutte le esperienze che hanno visto fondare una teoria delle forze irregolari , costituisce un patrimonio teorico che va valorizzato al meglio. Allo stesso tempo alcune esperienze storiche legate a determinate fasi della guerra di popolo, come nel caso dell’esperienza del FLN algerino, il cui modello continua a essere un riferimento costante per consistenti quote di subordinati di pelle scura, non possono essere ignorate. Senza dimenticare, ovviamente, ciò che le lotte e le indicazioni del presente ci raccontano. Se, come sembra sensato affermare, il vero paradosso del capitalismo globale è la rimessa in circolo di un modello coloniale non spazialmente separato ma diversamente declinato – di qui l’esclusione sociale dei nostri mondi come articolazione “locale” del modello coloniale – ciò che si pone all’ordine del giorno è la messa a punto di una teoria e di una prassi in grado di unificare dentro il progetto di un’idea – forza le lotte e le resistenze che oggettivamente le contraddizioni del sistema capitalista sono obbligate a produrre . La “restaurazione” del marxismo e della sua “ortodossia” passa e parte esattamente da qua.

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